16 anni, una faccina da bimba ancora in fasce, e un timbro da soprano alla Renata Tebaldi da spaccare la cristalleria di casa. Jackie Evancho è la (baby) star che finalmente canterà l’inno nazionale al cospetto del neopresidente Donald Trump nel giorno del suo insediamento ufficiale. No grazie, non vengo, non ci sarò, nessuno si permetta di dire che mi hanno invitato, sì vengo volentieri. Alla fine qualcuno, o qualcosa, ha accettato l’invito di Trump. La telenovela delle rinunce celebri al cospetto del 45esimo Commander in Chief ha avuto fine con l’arrivo della piccola Jackie, sorta di voce adulta in corpo bambino, scoperta in quel ginepraio di falsetti e brufoli di America’s Got Talent nel 2010. Basta fare un giro su Youtube per riascoltare la sua prima incredibile performance, O mio babbino caro, un’aria da soprano dall’opera Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, con giudici e pubblico del talent in visibilio. Dal quel giorno Jackie ha iniziato la sua carriera da cantante lirica ma con vendite pop. Un piccolo oracolo, ancora minorenne, degli Stati Uniti ossessionati dal bel canto. E ad essere obiettivi, al di là del possibile glamour di personalità come Celine Dion ed Elton John (entrambi hanno declinato l’invito), la presenza della Evancho, tutta biondina, occhi azzurri, bianca come il latte, e con questa sorta di strana mostruosità vocale che ne sdoppia fisico e anagrafe, sembra fare naturalmente il paio con la sorpresa politico-elettorale di un Trump altrettanto “babbino”.
“Sono un tantino nervosa, ma anche molto emozionata e non vedo l’ora di vivere questo grande momento”, ha spiegato la giovane cantante a USA Today. “Mi sono allenata ogni giorno da un mese anche fuori di casa, in piedi, visto che all’inaugurazione di solito fa molto freddo. E’ comunque un onore per me cantare per il mio paese e la mia presenza non ha alcun significato politico”. Jackie aveva già cantato per Trump nel 2011 al Mar-a-Lago Resort di Palm Beach in Florida (“Fu davvero molto gentile e fu una bella esperienza”) tanto che qualche maligno ha sostenuto che dopo la sequela di rifiuti ricevuta dalle grandi star del pop, Trump sia andato a sfogliare il suo album dei ricordi (a pagamento) e appena scorsa la bionda Jackie abbia immediatamente cercato di rintracciarla. Appunto, i rifiuti. Il Corriere della sera li ha messi in fila, e a dire il vero sono stati parecchi, tra gli altri: Celion Dion (“ho un altro impegno quella sera”), Elton John, il country singer Garth Brooks, David Foster (“Ho cortesemente declinato l’invito”), i Kiss (ma ve li immaginate tutti pittati in mezzo a carampane e giudici della Corte Suprema?). E per essere anche fieri della nostra italianissima diga antiTrump sono arrivati anche i no di Andrea Bocelli e de Il Volo che hanno risposto piccati: “Non siamo stati mai d’accordo con le sue idee politiche e con i suoi atteggiamenti xenofobi e razzisti”.
Insomma, nulla di altrettanto glamour e mondialmente rilevante come nelle ultime precedenti inaugurazioni chez Barack Obama. Nel 2009 fu l’imponente e mitologica anima della black music Aretha Franklin a cantare davanti alla Obama family la celebre America My Country ‘Tis Of Thee. Nel 2013 fu invece la regina del R&B Beyoncé a far vibrare le note dell’inno americano a cui seguì la performance di un’altra star dei talent, Kelly Clarkson vincitrice di American Idol che doppiò la Franklin con My Country ‘Tis of thee. Obama non è mai stato parco di apparizioni e di coinvolgimento con i grandi nomi del rock Usa durante i due mandati presidenziali più cool della storia. Il video in rete dove canta Sweet Home Chicago “rubando” il microfono a B.B.King e Mick Jagger ne testimonia l’assoluta vitalità soul. Il momento dei canti durante l’inaugurazione del mandato presidenziale è stato tradizionalmente occupato da bande militari e cori più istituzionalizzati. Grazie a Mashable.com però siamo riusciti a risalire alle diverse performance del National Anthem durante l’insediamento del presidente e, con sorpresa, scopriamo che il repubblicano Dwight Eisenhower nel 1957 fece esibire la contralto nera Marian Anderson per le strofe sacre dell’inno Usa. JFK le chiese il bis nel 1961, mentre bisogna arrivare al primo mandato di Bill Clinton nel 1993 per avere un nome di richiamo modello epoca di Obama, quando è il neonobel Bob Dylan a cantare Chimes of freedom in quello che è però il concerto inaugurale, ovvero lo show che precede di mezza giornata tutta la cerimonia con inno nazionale. Show che vide Ricky Martin e Jessica Simpson nel 2001 sul palco per George W. Bush e che a dire al vero quest’anno per Trump ha appena registrato gli acuti di Sam Moore (Soul Man, Hold on I’m coming, pensate un po’) e la presentazione entusiasta di Jon Voight. Insomma, in tutta questa concitata rincorsa alla presenza/assenza per la consacrazione del presidente Trump mancheranno sicuramente un paio di persone, molto importanti proprio per Jackie Evancho mentre intonerà l’inno: sua madre e sua sorella Juliet. La 18enne transgender, probabilmente non molto politicamente in linea con le crociate anti LGBT del vicepresidente Mike Pence, è in un ospedale di Philadelphia per un intervento chirurgico. “Mi ha incoraggiato moltissimo”, ha spiegato la Evancho. “Juliet la vede come me. Questa mia partecipazione non ha nulla a che fare con la politica, ma con l’onore e il rispetto per il proprio paese”