“Hanno lottato contro l’angoscia per non trasformarla in morte psichica. È come se si fossero deformati, adattandosi alle condizioni. Ce l’hanno fatta e ora per loro sarà come riemergere. Si sono comportati da minatori, non essendolo”. Cosa vuol dire vivere per due giorni in condizioni estreme, senza la certezza che ti stiano ancora cercando e le speranze che si affievoliscono di ora in ora, lo spiega a ilfattoquotidiano.it il professor Fabio Sbattella. È un docente dell’Università Cattolica, responsabile dell’Unità di psicologia dell’emergenza dell’ateneo milanese, tra i massimi esperti in materia avendo partecipato sul campo ai soccorsi dopo i terremoti in Molise, Abruzzo ed Emilia Romagna, oltre ad essere stato accanto ai sopravvissuti di Haiti e a coloro che sono scampati allo tsunami nel Pacifico. Paragona i sopravvissuti dell’hotel Rigopiano a coloro che vennero recuperati sotto le macerie delle case dopo il sisma di Messina, nel 1908. Allora nacque la psicologia dell’emergenza con uno studio chiamato “I sepolti vivi”. È la materia che ha permesso di inviare l’uomo sulla Luna, costretto a vivere in condizioni estreme molto a lungo. “Proprio come è successo agli ospiti nel resort abruzzese, oltretutto inconsapevoli dei soccorsi in arrivo”, aggiunge.
Professore, è un po’ come se quelle persone fossero nate una seconda volta?
Il rinascere presuppone uno stato di incoscienza. Loro hanno invece resistito in maniera consapevole. Hanno lottato per non farsi prendere dall’angoscia, non permettendole di trasformarsi in morte psichica. Hanno trovato delle condizioni fisiche che hanno concesso di sopravvivere, poi si è innescato il processo mentale: la lotta in compagnia.
E infine sono arrivati i soccorsi.
È un riemergere, un riprendere contatto con la vita. Hanno vissuto un’esperienza simile ai minatori.
Ci spieghi.
Anche loro combattevano, pregavano, si facevano forza per sopravvivere. Poi riprendevano contatto con il mondo. Quella che hanno vissuto è un’esperienza trasformativa più forte di quella dei terremotati. Chi vive un sisma vede il proprio paese morire e deve riorientarsi nel proprio progetto di vita, cambiare profondamente priorità e valori. La loro è stata una trasformazione ancora più radicale che dovrà trovare elementi di continuità con il passato. È un rinnovarsi, un convertirsi.
Di cosa necessitano ora?
La deformazione per sopravvivere lascia delle tracce, quello che definiamo il trauma. Solitamente vi è un’esaltazione da shock o il silenzio. Dopo aver abbracciato i cari, dormito, riposato e ritrovato il proprio equilibrio, il tempo ristabilisce le emozioni vissute.
Quali sono le prime fasi?
È estremamente importante la ‘sicurizzazione’, ovvero sentirsi realmente e profondamente al sicuro. Serve un luogo dove non si sentano le scosse, in questo caso. Secondo: bisogna stabilire una bolla ambientale, ovvero non devono sentirsi invasi da troppi giornalisti e parenti che vogliono fare festa. Quindi c’è il ritorno a casa, oppure un albergo ma lontano dal luogo della tragedia. Sono loro che devono scegliere.
E a quel punto?
Segue un tempo di riposo e ricongiungimento sociale. Devono poter vivere a ritmi blandi per un certo periodo, ritrovando le persone più care. Poi piano piano devono recuperare i gesti della quotidianità: la cura di sé stessi e degli affetti ed entro un mese c’è bisogno di un primo “disinnesco” di alcune sensazioni ed emozioni per evitare che alcune domande mal poste possano incidere nel futuro. Con calma, alla fine, dovranno intraprendere una rielaborazione dell’esperienza con uno specialista. Come praticamente non sono usciti da soli dalle macerie, così dovranno fare ora. Devono sapere che si può contare sulle relazioni che bisogna rispettare e coltivare.