Il presiedente Caruso ha respinto l'istanza degli imputati nel maxiprocesso contro la 'ndrangheta, che lamentavano l'atteggiamento colpevolista della stampa e di alcuni resoconti sui social network. Il magistrato ha citato la Costituzione sulla libertà d'informazione, ma ha aggiunto: "Il diritto di cronaca giudiziaria va contemperato con la presunzione di non colpevolezza"
Il maxi-processo Aemilia, il più grande dibattimento di ‘ndrangheta mai tenutosi in Emilia Romagna, va avanti a porte aperte e con la presenza della stampa. Il giudice Francesco Maria Caruso ha respinto l’istanza dei 140 imputati, e in particolare di quelli detenuti, che nei giorni scorsi si erano lamentati con la Corte di un presunto linciaggio mediatico nei loro confronti e di una stampa che sarebbe tutta schierata dalla parte dell’accusa. La stampa e i social network – era la sostanza della richiesta letta pubblicamente nell’aula bunker di Reggio Emilia dall’imputato Sergio Bolognino – finora avevano raccontato il processo in maniera colpevolista, dando per scontata la responsabilità degli imputati e anche il fatto che tutti fossero ‘ndranghetisti. Per questo avevano chiesto le porte chiuse e anche una verifica sugli articoli di stampa che raccontano le udienze. Ma secondo Caruso il processo penale, a meno di casi particolari messi nero su bianco sul codice di procedura, deve essere pubblico: “La pubblicità dell’udienza ‘a pena di nullità’ – scrive Caruso citando il codice – è anzitutto garanzia fondamentale degli imputati”.
Secondo il magistrato l’istanza letta dagli imputati di Aemilia non offre alcun esempio concreto di distorsione della verità e ciò che si contesta “è il fatto stesso un’informazione sul processo sia data”. Ma il diritto all’informazione è sancito dalla Costituzione all’articolo 21 ed è una “pietra angolare del sistema democratico”. Caruso inoltre ridimensiona anche l’argomentazione degli imputati sul fatto che i testimoni possano essere influenzati dai resoconti riportati dalla stampa ma anche dai social network delle decine di udienze già svolte da marzo 2016 a oggi. Il riferimento degli imputati era probabilmente alla pagina facebook dedicata al processo dell’associazione antimafia Agende Rosse. Un rischio di influenzare i testi che, secondo il giudice, non dipende dal fatto che quanto si dice nelle udienze e nelle deposizioni sia reso pubblico, ma che è “connaturato alle caratteristiche dimensionali e alla rilevanza pubblica del processo che non permettono di tenere testimoni e le parti all’oscuro”. Il processo – è il ragionamento di Caruso – con centinaia di avvocati, imputati, parti civili è troppo grande per passare inosservato. “La garanzia della genuinità della prova – scrive il magistrato– risiede nella capacità delle parti, attraverso l’esame incrociato, di ottenere deposizioni veridiche”.
Il presidente della Corte tuttavia approfitta dell’istanza degli imputati per ricordare i doveri dei giornalisti, affinché esercitino in maniera “il più possibile professionale” il “sacrosanto e incomprimibile diritto di cronaca giudiziaria, essendo in gioco l’altrettanto fondamentale principio di presunzione di non colpevolezza che deve essere bilanciato con il primo”. Nessuno vieta al giornalista di commentare o criticare le posizioni degli imputati a processo, scrive il presidente, ma fino a prova contraria gli imputati stessi non sono colpevoli e “il giudizio finale spetta ai giudici”.