Un gelo penetrante si è abbattuto su Firenze. Salgo sul bus, ho finito una giornata di lavoro, sono stanco, ho voglia di cenare e di un bicchiere di vino rosso. Sul mezzo, mentre mi dirigo nel punto più isolato, scorgo solo pochi passeggeri, ho una ventina di minuti buoni prima di scendere e arrivare a casa. Prendo un libro dalla borsa, neanche volevo leggerlo inizialmente, invece scopro, dopo poche pagine, che non è male, mi immergo nella lettura.
Passa qualche minuto, poi improvvisamente mi accorgo di un uomo che si è seduto accanto a me, il suo braccio ha urtato il mio, il suo corpo è troppo vicino, mi infastidisce.
Alzo lo sguardo e la prima cosa che vedo sono le sue lunghe gambe appoggiate sui sedili vuoti anteriori ai nostri. La sua invasione di campo irrita, mi irrigidisco, tento di distaccarmi, ma lo spazio non mi è amico, ho poca possibilità di manovra, l’unica sarebbe farglielo notare. Lo guardo meglio, tre quarti del volto coperti da cappuccio e sciarpa, vedo solo i suoi occhi, si chiudono qualche secondo e si riaprono.
In braccio, come fosse un bambino, l’uomo ha un cartoccio di vino bianco di bassa qualità chiuso in una busta, ci gioca. Sembra voglia aprirlo, desiste, lo rimette nell’involucro di plastica. Il suo braccio continua a trovarsi a stretto contatto con il mio, incurante lo spinge verso di me, ogni volta che si muove. Decido di rassegnarmi e resistere. Provo a rimettermi a leggere, ma lui fa dei versi sconclusionati, ridacchia. Inutile, sono distratto, rimetto il libro nella borsa e aspetto la fine della corsa, comincio a valutare l’idea di cambiare sedile, il posto c’è. Mentre penso a questa possibilità, poco prima, probabilmente, di concretizzarla, è l’uomo a cambiare posto. Sull’altro lato del bus ci sono quattro sedili vuoti frontali, nel “nostro spazio” uno è occupato da me, gli devo essere di ingombro. Vedo che si distende utilizzando tutto lo spazio disponibile, noto che il cartoccio di vino, non so come e quando, è stato aperto, dà qualche sorsata.
Sono “libero” eppure nuovamente a disagio. Mi darebbe fastidio chiunque entrasse nel mio spazio intimo, senza averne la confidenza o il permesso, fosse anche in giacca e cravatta, ma sento di avere giudicato quella persona, di averci messo altro, per via del suo aspetto, del cartoccio di vino, della sua noncuranza. Certo, per come si è presentato e comportato, non potevo pretendere altro da me, ma sento di avergli tolto umanità e questa è una cosa che ha a che fare con me, non con lui. Attenzione, lo ripeto, non sto dicendo che avrei potuto fare qualcosa o sentire qualcosa di diverso, rispetto al suo modo di comportarsi, ma che, da questo, è stato facile scivolare nel pregiudizio, in una sorta di etichettamento. Ho la sensazione che si prova quando si gira il capo dall’altra parte per non vedere, per non doversi fare carico di qualcosa per cui non si ha la soluzione o della quale non ci si vuole sentire responsabili.
Sento di avergli fatto torto. Io sono quello del bicchiere, lui quello del cartoccio di vino. Non mi sono scontrato, dentro di me, con quello che ha fatto e per cui non potevo che lamentarmi, ho giudicato automaticamente quello che è, senza sapere nulla di lui, lui che neanche si è accorto della mia presenza. Con uno sconosciuto “presentabile” non lo avrei fatto, avrei espresso il mio disagio, lo avrei visto come persona, confrontandomi, rischiando anche di non capirsi, di arrabbiarsi, ma questo avrebbe presupposto un riconoscimento, da parte mia, di lui come persona.
Lavoro con la sofferenza, ma quando questa passa accanto, fuori dallo studio, basta un attimo per giudicare, attaccare, non vedere, girarsi dall’altra parte, sentirsi non responsabili, tutto pur di non ammettere la propria misera impotenza.
Se l’insofferenza verso l’altro è in grado di trasformarsi anche in insofferenza nei propri confronti per un esame critico, che metta in crisi, allora forse posso restituire umanità a entrambi. Scendo, sono arrivato, ma i venti minuti calcolati non basteranno per finire il viaggio cominciato su quel bus.
Vignetta di Pietro Vanessi