di Tito Borsa

Quanto è accaduto in Abruzzo è una tragedia, rappresentata drammaticamente dall’albergo di Rigopiano, trasformato in una tomba di ghiaccio grazie a neve e sisma in rapida successione. Quando alcuni corpi sono ancora sotto la neve e non tutti i dettagli della gestione dell’emergenza sono ancora chiari, Charlie Hebdo pubblica una vignetta: “In Italia. La neve è arrivata”, con la morte che scia e afferma beffarda “y en aura pas pour tout le monde” che si può tradurre (anche se liberamente) con “Chi prima arriva, meglio alloggia”.

Apriti cielo! I soliti leoni da tastiera, che avevano protestato dopo le due vignette di Charlie Hebdo sul terremoto del centro Italia dello scorso agosto (quella dei morti come lasagne e quella sulla mafia responsabile dei crolli, ndr), hanno nuovamente sentito il bisogno di esternare sul web la propria indignazione. La vignetta è stata pubblicata anche sulla pagina Facebook del settimanale satirico francese causando migliaia di commenti: da “Siete dei sadici a “Charlie Hebdo va perseguito” (da chi, poi?), da Decerebrati a “Vergognatevi di essere ancora sulla faccia della Terra, brucia ossigeno a tradimento! Quando vi avranno tolto di mezzo chi ve la farà ‘la vignetta eterna’? Bastardi!”. E ho evitato di riportare i più volgari e quelli che invocavano un ritorno dei terroristi in redazione.

Lascio perdere ogni discorso sul significato della vignetta, la quale può essere legittimamente definita fuori luogo, poco riuscita, offensiva e così via. Charlie Hebdo può non piacere e per questo non è obbligatorio acquistarlo. Detto questo, e premesso che auspicare un altro attentato è un atteggiamento criminale, il settimanale francese ha il diritto di esistere. Al di là della questione giuridica, che non prendiamo nemmeno in considerazione perché interpretare le disgrazie non è un reato, dovremmo sempre ricordare che non esiste (né può esistere) una limitazione qualitativa della stampa: siamo liberissimi di ritenere Charlie Hebdo carta straccia, siamo altrettanto liberi di criticarli, ma augurarsi la chiusura del settimanale per “lesa italianità” è pericoloso.

Se davvero volessimo istituire un controllo di qualità sulla stampa, cosicché i giornali ritenuti qualitativamente al di sotto di una certa soglia non possano essere pubblicati, a chi affidiamo questo giudizio? A chi diamo in mano il controllo di libertà fondamentali come la stampa e l’espressione? Un controllo legale già c’è e il reato più comune per i giornalisti è la diffamazione, ma non si tratta di un giudizio qualitativo del prodotto, bensì di una norma volta a impedire la diffusione di notizie false o di offese rivolte a determinate persone. La creazione di una sorta di “tribunale della stampa” rievoca i più illiberali scenari di orwelliana memoria e mette nelle mani dei giudici l’immenso potere di decidere quando una libertà può essere esercitata e quando no, e tutto questo sulla base del proprio particolare gusto.

Questa non è democrazia, è regime: in che occasione, nella Storia, sono stati chiusi dei giornali perché non rispondevano alle esigenze e ai gusti (anche propagandistici) del potere? Evocando queste distopie ci dimentichiamo che un “tribunale” siffatto (ma molto più liberale) esiste già, e si chiama mercato: un giornale esiste finché ha dei lettori disposti a spendere dei soldi per acquistarlo. Ognuno di noi ha il diritto, quando non viene violata la legge, di leggere ciò che preferisce: se da una parte nessuno può essere obbligato ad acquistare un giornale, dall’altra nessun organo di stampa può essere chiuso in modo coatto perché ritenuto di qualità non abbastanza elevata. Prima di pronunciare sentenze e auspicare la chiusura di un giornale, dovremmo provare a capire fino a dove possono portare le nostre parole. Non dobbiamo apprezzare per forza Charlie Hebdo, ma ricordiamoci che la Francia e l’Italia sono due democrazie, e che ognuno ha il sacrosanto diritto di esprimersi nel modo che ritiene opportuno.

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