Sembra che di là dalla suggestione, se non dal facile effetto, il teatro contemporaneo spesso non riesca ad andare oltre. Invece costruire un testo di senso compiuto, una narrazione puntuale, un racconto coerente è diventato terribilmente difficile. Con Oscar De Summa siamo nel campo dell’attore e autore che sente evidente la necessità di raccontare e ne ha piena capacità. Che il suo raggio d’azione sia l’autobiografia poco importa, anche perché si tratta di spunti personali che grazie a un sempre meno diffuso senso dell’umorismo riescono a definire con incisività i tratti del discorso. Discorso su una provincia nazionale, su una confederazione di paesini, nord o sud è alla fine indifferente, abitati da comari, da macisti, disperati, vittime e carnefici.
La sorella di Gesù Cristo, rappresentato sabato 21 gennaio all’ITC di San Lazzaro (BO), è il terzo capitolo di una trilogia che Oscar De Summa dedica alle sue esperienze in un luogo dell’anima dal quale voleva fuggire: le proprie radici. Una ragazza impugna una pistola e si mette in marcia con decisione verso colui che l’ha violentata, per farsi vendetta da sola. E attorno a lei si dipana una teoria di mostri, quelli di cui facciamo parte, che si muovono come un’unica onda, dalla quale emergono personaggi come spruzzi del mare per dire la propria. Gli anni 80 sono il contesto temporale, quello della giovinezza di Oscar de Summa. Un sud talmente iperrealista da sembrare nel suo afrore, nella polvere che solleva, nelle urla sboccate, nelle case baracche, la quinta traballante di un western italiano anni 70. Del lungo piano sequenza che accompagna la protagonista verso il proprio destino di violenza (subita e agita) già si è detto. Uno spettacolo cinematografico, certamente, nella scrittura.
Per aggiungere qualcosa di nuovo si potrebbe dire che più che cinema siamo davanti alla costruzione di un cantastorie contemporaneo. Tutto in Oscar De Summa è orgogliosamente popolare. La cornice, le parole, le azioni, perfino i soprannomi. Popolare come nelle farse e nelle tragedie antiche, sia chiaro. Il coinvolgimento è testimoniato durante lo spettacolo da risate e applausi a scena aperta per chi la stessa storia da comica la volge all’improvviso in rappresentazione di emozioni lancinanti. Un cambio di registro che è prova di bravura dell’autore. Autore popolare. E il segno inequivocabile sono quei pannelli che separano in quadri, o stazioni sacre da calvario, la lunga camminata della protagonista. Scansioni temporali precise come metope di un fregio. Sono i pannelli dei cantastorie, appunto.
Quando si consumava un caso violento di cronaca il cantastorie, chitarra alla mano e cartelli disegnati, narrava la vicenda, che da cronaca diventava mito rappresentativo per una società fatta di pietre e bastoni. Oscar De Summa dichiara la sintesi, ammette la soluzione esemplificativa per dare respiro e coerenza al discorso dai ritmi dispari, dal profluvio di parole che si interrompe su un lento monologo baritonale, poco importa sia la voce di una donna.
L’equilibrio è nel suono, la ritmica negli spazi, il sentimento nella distorsione. Il rock è colonna sonora dello spettacolo, è vita vissuta, è messaggio viscerale. Nella trilogia Oscar De Summa è rock, è cantastorie, è stand up comedian, è fuggitivo che torna sul luogo del delitto che l’ha afflitto per anni per compiere la sua vendetta: schernirlo e farci i conti una volta per tutte.