Il verdetto della Corte Suprema, che impone un voto del Parlamento per l’attivazione dei negoziati sulla Brexit, potrebbe portare a riconsiderare le dure posizioni assunte la scorsa settimana da Theresa May sul palco della Lancaster House. Il primo ministro britannico, che si è detto “deluso” dalla sentenza, aveva infatti delineato per la prima volta il perimetro dei negoziati per l’uscita dalla Ue annunciando che non avrebbe accettato una soluzione punitiva per il proprio Paese e che la Gran Bretagna uscirà anche dal mercato unico europeo. Un isolazionismo che avrebbe potuto terrorizzare gli investitori esteri, ai quali ha provato a strizzare l’occhiolino lasciando presagire una totale rivoluzione del modello economico del Regno Unito, più vicino alle loro esigenze. Ma il percorso che dovrà affrontare il Paese d’oltremanica si preannuncia a ostacoli.

Welfare e sicurezza sociale a rischio, riduzione dei salari in termini reali del 30% nei prossimi 20 anni in nome della competitività e lavoratori europei rimpiazzati da immigrati indiani e africani: questo il quadro a tinte fosche tracciato pochi giorni fa da Guy Hands, presidente di uno dei gruppi di private equity più grandi d’Europa, Terra Firma, sul futuro della Gran Bretagna post Brexit. Non solo: i tassi di interesse riceveranno una forte spinta verso l’alto, molte aziende non saranno in grado di farvi fronte e alcune di queste andranno in fallimento, fornendo ai fondi di buyout, cioè i private equity che investono in società mature per rivitalizzarle (o scorporarne gli asset e venderli) molte opportunità di acquisto. “È triste, e questa è sempre una delle stranezze degli affari, penso che la Brexit sia un male per il Paese e per la maggior parte delle persone, ma credo che per i miei affari sarà una buona cosa”, ha aggiunto Hands.

Le prospettive non ancora del tutto chiare di una hard Brexit mettono a rischio il modello economico su cui si poggia la Gran Bretagna del ventunesimo secolo. Secondo le statistiche nel 2015 il Regno Unito ha esportato beni nel resto dell’Unione Europea per un valore complessivo di 133 miliardi di sterline, quasi la metà del totale delle esportazioni della Terra d’Albione. I dazi che mediamente applica Bruxelles sono del 4,8% e, se applicati al totale dell’export Uk, rappresentano, secondo quanto calcolato dall’Independent, un costo di circa 4,5 miliardi di sterline. Le tariffe doganali applicate dall’Unione Europea variano da settore a settore, passando dallo 0% per quanto riguarda i prodotti farmaceutici al 45% per il tabacco. Per questo alcuni settori industriali saranno più colpiti di altri: l’export di automobili e veicoli, per esempio, potrebbe soffrire costi maggiorati per 850 milioni di sterline, rispetto a un valore delle esportazioni di 14,5 miliardi di sterline per un dazio medio del 6 per cento. Lasciare l’Unione Europea da falchi significa dire addio anche alle decine di trattati commerciali siglati da Bruxelles con singoli altri Paesi o ai trattati multilaterali che riguardano più Paesi, oltre a rialzare le cosiddette barriere non tariffarie con l’Unione Europea. Secondo una ricerca della Commissione Europea, i costi di queste barriere nel settore automobilistico e aerospaziale, due settori che ancora sostengono l’asfittico tessuto manifatturiero britannico, si aggirano tra il 10 e il 20 per cento.

A Davos, poche settimane fa, Theresa May ha sottolineato che negli ultimi anni l’espressione “strategia industriale” ha assunto dei connotati negativi, ma lo stesso premier è convinto invece che questa sia una delle strade attraverso cui debba passare il rilancio del Regno Unito. “Credo che una tale strategia – che vada ad affrontare le debolezze strutturali e di lunga data della nostra economia – sia essenziale se vogliamo promuovere i benefici del libero mercato e del libero scambio come vogliamo”, ha dichiarato il primo ministro. Il tallone d’Achille del Regno Unito si chiama produttività. Penultima del G7 (davanti al Giappone), i dati dello scorso ottobre hanno evidenziato che la Gran Bretagna negli ultimi anni ha ampliato il divario nei confronti delle altre principali economie occidentali, toccando, con il 18% in meno della media, il gap maggiore dal 1991. E così, curiosamente, allo studio dei ministri inglesi sono comparsi dossier sull’applicazione della tecnologia allo sport i cui risultati hanno portato, per esempio, la squadra di ciclismo inglese a conquistare un numero inedito di medaglie d’oro alle Olimpiadi.

Ma più attentamente l’esecutivo sta studiando anche l’impatto che potrebbe avere sulla produttività la negoziazione di zone di libero scambio: secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, abbattendo tutti i dazi la produttività potrebbe guadagnare oltre lo 0,6% del prodotto interno lordo: anche una riduzione unilaterale potrebbe fornire ai cittadini e alle imprese britanniche prodotti e servizi di maggiore qualità e a minor costo, stimolando, in tal modo, concorrenza e innovazione.

Una tale politica mira a frenare i massicci disinvestimenti delle multinazionali finanziarie e industriali che si stanno moltiplicando settimana dopo settimana. Hsbc ha confermato il trasferimento di 1.000 suoi banchieri a Parigi, e lo stesso potrebbe fare Ubs verso Francoforte. Goldman Sachs, che aveva già spostato parte del suo staff a Londra per smarcarsi dall’introduzione del Dodd-Frank Act, potrebbe oggi fare il viaggio a ritroso, mentre Jp Morgan sta valutando la creazione di un nuovo back-office e lo spostamento di 2.500 posizioni dal Regno Unito a Varsavia. Restano a guardare gli sviluppi della situazione i grandi produttori automobilistici giapponesi come Toyota e Nissan, che cercano rassicurazioni dal governo May prima di buttare l’occhio altrove.

Il sogno proibito di alcuni brexiteers della prima ora, e di altri che potrebbero salire sul carro del vincitore, si chiama Singapore. La città-stato asiatica rispetta le regole del Wto ed è tra i fondatori dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico. Ma si distingue per un orientamento della regolamentazione vicino agli investitori, in particolare quelli finanziari, ponendosi così all’estremo opposto delle ingerenze regolatorie generalmente attribuite all’Unione Europea. I piani del governo May prevedono di portare entro il 2020 la tassazione alle imprese al 17%, casualmente la stessa di Singapore. Ma al momento molti a Bruxelles si chiedono se questo sogno sia in realtà un bluff. Applicare a un’economia del G7 il modello di una città-stato potrebbe costringere il governo a privilegiare alcuni settori a discapito di altri, creando un profondo surplus di manodopera e la cancellazione di molti progetti infrastrutturali. Un sogno che per Londra potrebbe pericolosamente trasformarsi in un incubo.

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