Il 25 gennaio 2016 al Cairo si perdevano le tracce del ricercatore friulano. A distanza di 12 mesi, nonostante l'impegno della Procura di Roma, l'omicidio non ha ancora un colpevole: "Il regime ha due facce, con l'Italia finge di voler smuovere qualcosa, ma non abbiamo mai letto una riga dei rapporti dell'inchiesta", spiega Mohammed Lofty, vice presidente dell'associazione di avvocati che rappresenta la famiglia
A un anno dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo nulla è cambiato. Il traffico incessante tra i palazzi color caramello della capitale è lo stesso di sempre, quasi una metafora stantia della continua repressione del governo egiziano che rende questo giorno, sesto anniversario della rivoluzione egiziana, uno dei più temuti da quando Abdel Fattah El Sisi ha preso il potere con un colpo di stato nel 2013. Nessuna manifestazione indetta per la rivolta che destituì Hosni Mubarak e nessuna commemorazione organizzata per Giulio. L’unico appuntamento “in memoria di Regeni” è all’American University, ateneo a cui il ricercatore di Cambridge era affiliato per il suo periodo di ricerca partecipata. Una conferenza prevista però per il 14 febbraio, una scelta di basso profilo dell’ateneo già criticato per non aver condannato l’uccisione del ricercatore di Fiumicello.
Molti attivisti hanno scelto di andare via mentre tra chi resta regna la rassegnazione che non si arriverà mai alla verità nonostante qualcosa sembri muoversi: la procura egiziana ha dato il via libera all’arrivo di esperti italiani per l’analisi del materiale registrato dalle telecamere a circuito chiuso della metropolitana, poi tre giorni fa la tv di Stato ha trasmesso un video catturato con una videocamera nascosta da Mohammed Abdallah, il capo dei sindacalisti egiziani.
“Quel materiale è solo fumo negli occhi“, spiega Hoda Kamel, sindacalista del Centro per i diritti economici politici e sociali del Cairo: fu lei, nell’autunno del 2015, a mettere in contatto Abdallah con Regeni per le sue ricerche. Hoda è una signora minuta sui sessant’anni e ha il volto stanco e triste di chi ha perso completamente fiducia nel suo Paese. Sul suo polso spicca un braccialetto giallo di gomma, è quello di Amnesty International con l’hashtag #veritapergiulioregeni. Alcuni attivisti sono riusciti a farne arrivare poche decine dall’Italia e distribuirli tra gli amici di Giulio. “Io non credo che si stia muovendo qualcosa” – ribadisce la sindacalista – anche l’Italia, a causa dei suoi molti interessi economici in loco, non ha fatto pressione in maniera severa affinché la verità venisse fuori. Io da un anno non smetto di rilasciare interviste, ma ormai mi sembra tutto inutile“.
La rassegnazione per la situazione egiziana, che ormai oscilla tra una crisi economica senza precedenti e una repressione dei diritti umani che ha portato negli ultimi tre anni a 60.000 arresti, è un altro leitmotiv di chi in Egitto da un anno si batte per avere la verità e tenta di contrastare la serie di depistaggi portati avanti dalle autorità egiziane: dall’incidente stradale alla pista dei festini omosessuali, sino ad arrivare all’uccisione di 4 civili, spacciati per una banda di criminali specializzata in rapimenti per stranieri. Ha poca voglia di parlare anche Amr Assad, amico egiziano di Giulio, uno degli ultimi ad averlo prima della sua scomparsa, che ci liquida brevemente al telefono perché ha deciso di non rilasciare interviste per questo anniversario.
Mohammed Lofty, il vice di Ahmed Abdallah, il presidente dell’associazione di avvocati che rappresenta la famiglia Regeni, pensa che l’ultimo video ripreso dal sindacalista egiziano sia l’ennesima prova che i servizi di sicurezza siano i responsabili della morte di Giulio. “E’ tutto fermo, abbiamo chiesto di avere la visione dei fascicoli di indagine, lo abbiamo fatto diverse volte ma non ci hanno dato niente: non abbiamo mai letto una riga dei rapporti dell’inchiesta”, ci racconta. “Il regime ha due facce, con l’Italia finge di voler smuovere qualcosa, ma l’intera parte processuale in Egitto fa riferimento solo al procuratore, e da quella noi siamo e resteremo esclusi”.
Quello che emerge con certezza dagli sviluppi investigativi degli ultimi mesi è il coinvolgimento di Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti. L’uomo, da lungo tempo vicino ai servizi egiziani, che ha ammesso di aver denunciato Giulio all’intelligence (portando come prova anche il video registrato con la telecamera nascosta). Ma diversi tasselli del suo racconto non combaciano: Abdallah dice di aver girato il video di sua iniziativa mentre i Ros italiani sostengono che il video era stato presumibilmente commissionato dalle forze di sicurezza (come poteva Abdallah possedere una microcamera a bottone, attrezzatura costosa e sofisticata?). Inoltre, la polizia egiziana dice di aver controllato Giulio solo per tre giorni, dal 7 al 10 gennaio, ma i contatti telefonici tra il sindacalista e i servizi sono continuati anche nei giorni successivi. Abdallah, raggiunto al telefono, conferma la sua teoria già esposta in un’intervista data all’Huffington Post arabo: “Giulio era una spia e dopo che io l’ho smascherato è stato ucciso dai servizi per cui lavorava”.
Malek Adly, attivista di spicco per i diritti umani e a cui è stato negato l’espatrio per essere alla manifestazione di oggi a Roma ribadisce che il governo continua i suoi tentativi maldestri e illogici di depistare le indagini. “Abbiamo le prove che Giulio è innocente, non c’è altra lettura disponibile”, ci racconta seduto sulla sua scrivania che ha visto passare centinaia di casi di torture. “Anche l’ultimo video dimostra che Giulio non era una spia e qui al Cairo svolgeva in modo diligente la sua ricerca”.
Intanto il governo italiano continua ad aspettare. La Farnesina, contattata da IlFattoQuotidiano.it, non ha dato risposta alle indiscrezioni che davano imminente l’arrivo al Cairo del nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini dopo 8 mesi dal ritiro di Maurizio Massari. Dall’altra parte i media egiziani hanno sfruttato la presenza alcuni giorni fa del direttore generale della cooperazione italiana Pietro Sebastiani, arrivato la scorsa settimana nella capitale egiziana per inaugurare il nuovo museo di Arte Islamica. La sua foto è stata pubblicata su tutti i quotidiani egiziani per dimostrare che i rapporti tra l’Italia e l’Egitto sono in via di miglioramento.
A 12 mesi di distanza la verità è poca e frammentata. Dal governo egiziano fanno sapere che potrebbero emergere nuovi elementi nei prossimi due mesi. Ma mentre la società civile italiana si mobilita, le migliaia di vittime delle forze di sicurezza egiziane rimaste senza colpevole danno poca speranza agli attivisti egiziani che ben conoscono i meccanismi perversi e illogici del loro governo.