Sta firmando decreti su decreti, il neo-presidente Usa Donald J. Trump. E così – nel riportarne i contenuti titolava ieri Il Fatto Quotidiano: “Trump firma l’ordine di costruire il Muro (quello che dovrebbe correre lungo tutti i 3.145 chilometri della frontiera tra Messico e Stati Uniti ndr). Ambiente, stampa, migranti: In 5 giorni Trump ha stravolto l’eredità di Obama”. Giustissimo, anche se in effetti non si tratta, per il momento, che di molto enfatiche dichiarazioni d’intenzioni o, più propriamente, di un reality show. Una cosa sembra esser tuttavia sfuggita ai titolisti del giornale. E si tratta in assoluto della più importante, perché è quella che davvero consente, oltre le firme e le parole, di colmare la proverbiale differenza tra il dire e il fare. 0, quantomeno tra il dire ed una molto specifica e rivoluzionaria – nonché a tutti gli effetti “trumpiana” – versione del fare.
Nel suo discorso inaugurale. Donald Trump aveva, infatti, promesso di restituire “il potere al popolo”. Non lo ha fatto né, ovviamente, ha intenzione alcuna di farlo. Ma ha in compenso garantito a se stesso – e da subito – un potere che va ben oltre le tradizionali varianti politiche ed economiche del termine, cascami, entrambe, d’ormai obsolete correnti di pensiero. Si tratta del potere di “farsi i fatti propri”. Laddove “farsi i fatti propri” non significa più, come fino a ieri, evitare di farsi i fatti altrui o mettere il naso in faccende che non ci riguardano. Da quando la chioma arancione di Donald Trump troneggia dietro la scrivania dell’Ufficio Ovale, il senso d’una tale espressione, da secoli usata ed abusata (prendere nota, please, Accademia della Crusca), ha d’acchito assunto un’accezione ben più sostanziale e creativa, letterale direi. Farsi i fatti propri sta, di qui innanzi, per generare, modificare, plasmare i fatti nel modo che a ciascuno più aggrada o convenga. A patto, naturalmente, che quel ciascuno sia Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, o quantomeno un suo stretto collaboratore. Chiamateli, se vi pare, i fatti a prescindere dai fatti.
Le due parole in questione – quelle che hanno con un rivoluzionario colpo di spugna cancellato un modus pensandi antico, credo, quanto l’uomo – sono un sostantivo plurale e l’interconnesso aggettivo. Per l’esattezza: “fatti alternativi”. Ed a pronunciarle non è stato il medesimo Trump, ma quella che del neo-presidente è la più fidata e visibile dei portavoce: l’imperturbabile Kellyanne Conway. Che cosa sono i “fatti alternativi”? A questa domanda si potrebbe semplicemente rispondere che sono quelle che, prima della “rivoluzione”, si chiamavano menzogne. E chi ha letto il “1984” di George Orwell può facilmente cogliere la sostanza della metamorfosi pensando ad una versione particolarmente ciarlatanesca del “Newspeak” in uso in quel di Oceania. Vale tuttavia la pena narrare, almeno per grandi linee, la nascita di questa epocale metamorfosi.
Il tutto accadde allorquando, domenica scorsa, ignaro della rivoluzione concettuale in corso, il giornalista Chuck Todd, della rete Nbc, ebbe a definire “falsità” le argomentazioni con le quali tanto Trump quanto, poco più tardi, il suo primo portavoce Sean Spicer avevano stizzosamente risposto ai servizi di stampa e televisivi che avevano segnalato, sulla base di inoppugnabili immagini e di inoppugnabili cifre, come la partecipazione alla cerimonia inaugurale di venerdì – da Trump definita “la più grande della Storia” – non fosse in realtà che una frazione di quella che aveva accompagnato Barack Obama nel 2009. Spicer, in particolare, aveva ribattuto citando cifre della “ridership” – in pratica i biglietti venduti – della metropolitana di Washington, poi risultate completamente diverse (essendo le vecchie abitudini dure a morire, stavo per scrivere “false”) da quelle diffuse dalla Impresa di trasporti che la gestisce.
Messa di fronte a questo fatto (mi si consenta di usare per un’ultima volta la parola nella vecchia accezione), Kellyanne non s’era scomposta. Spicer, aveva sostenuto senza batter ciglio, non ha mentito. Si è limitato ad illustrare “fatti alternativi”. Al che Chuck Todd, un uomo di poca fede, ha avuto l’ardire di rispondere: “I fatti alternativi non sono fatti, sono falsità”.
Dovrà ricredersi. Perché, se è sicuramente vero che troppo presto è per leggere il futuro, anche il più prossimo, dell’amministrazione Trump, altrettanto certo è che i “fatti alternativi” saranno – un po’ come le donne cannone dei vecchi baracconi da luna park – la vera attrazione ed il vero motore di questa presidenza. Basti pensare che, solo nel brevissimo lasso di tempo trascorso tra l’invio e la pubblicazione di questo post, Trump ha avuto modo di regalarci altri due ed assai significativi “fatti alternativi”. Il primo (si tratta in realtà di un bis, anzi, di un tris), è la denuncia d’una colossale (colossalmente “alernativa”) frode elettorale – il voto di “5 milioni di immigrati illegali” – che gli avrebbe sottratto la vittoria nel voto popolare (tornerò sull’argomento in dettaglio perché ne vale la pena). Il secondo riguarda, invece, il suo essere un grande campione della difesa dell’ambiente, come testimoniato dai “numerosi premi” da lui vinti in materia. Premi dei quali, prevedibilmente, non v’è traccia alcuna.
Diceva Abraham Lincoln: “Puoi mentire sempre a qualcuno, o qualche volta a tutti. Ma non puoi mentire sempre a tutti”. Parole che, mentre incede la rivoluzione trumpiana, sembrano venire dall’età della pietra…