Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della Memoria in commemorazione delle vittime del nazi-fascismo. Uomini e donne, ebrei e rom, omosessuali e oppositori politici: una fila infinita di fantasmi dallo sguardo scavato e dalla sagoma scheletrica che segna lo spartiacque della storia europea perché – ci è stato ripetuto – dopo Auschwitz il mondo non sarà più lo stesso.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il linguaggio, la poesia, Dio, il male avevano cambiato il loro senso e tutto andava ripensato a partire dai campi di concentramento perché qualcosa si era irrimediabilmente spezzato nel cuore dell’Europa; un punto di non ritorno era stato toccato. Fu la voglia di dimenticare il sentimento dominante e poche persone trovarono il coraggio di guardare in faccia quanto accaduto. Malgrado quasi tutti avessero qualcuno o qualcosa per cui versare le lacrime.
Alcuni non poterono farlo. Furono le vittime della persecuzione, costretti a vivere lo choc del ritorno a casa dopo la liberazione dei russi e degli statunitensi senza trovare nessuno che avesse voglia di ascoltare le loro storie. La parola d’ordine fu “dimenticare” e le storie che parlavano di Auschwitz finirono per diventare un “tabù”, così come le vite di chi in quei campi aveva vissuto.
Anni dopo alcuni di quei sopravvissuti sono morti accompagnati dal desiderio di sprofondare nell’oblio di un dolore senza conforto. Altri sono riusciti a raccontare la verità per finire schiacciati dalla stessa e dal senso di colpa che condanna i sopravvissuti.
Miriam, un’elegante signora svedese, ha rivelato la verità dei lager solo a 85 anni, quando, davanti allo stupore dei parenti presenti alla festa del suo compleanno ha gridato la verità che per una vita aveva tenuto nascosta: “Io non mi chiamo Miriam”.
Venerdì27 gennaio, Giornata della Memoria, presso il Senato verrà presentato il libro di Majgull Axelsson Io non mi chiamo Miriam, basato su eventi reali, che racconta la storia di Malika, personaggio di fantasia, che per 70 anni ha custodito il segreto della vera identità, perduta quando, all’età di 16 anni aveva infilato i vestiti di una sua coetanea ebrea morta dentro un vagone che da Auschwitz la portava nel campo di Ravensbrück. Da quel giorno una ragazza rom di 16 anni, cambiò i vestiti e con essi il suo nome e il suo destino.
Perché l’ha fatto? “Potrei dire di averlo fatto – si legge nel libro – solo perché desideravo tanto sopravvivere, ma non è vero. In realtà non volevo vivere. Didi, il mio fratellino, era appena morto e Anuscha lo era da tempo. Però volevo essere un cadavere intatto, non volevo morire fucilata o fustigata o uccisa a calci… Non so perché ma era così. Volevo essere un cadavere intatto“.
Da quel giorno la sua vita da internata cambia. Non è più Malika ma Miriam. Fuori dai campi di concentramento gli ebrei occupavano l’ultimo posto ma dentro esso era preso dagli “zingari”, odiati e detestati da tutti “Ti dirò – racconta Miriam a sua nipote Camilla – I tedeschi erano abominevoli con quelli che avevano il triangolo giallo, disgustosamente abominevoli, ma le prigioniere, comprese le kapò erano peggio nei confronti degli “zingari”, e in fondo era soprattutto con gli altri prigionieri che si aveva a che fare. Così continuai a essere Miriam”.
Dopo la prigionia, la liberazione e il lungo viaggio in Svezia, Miriam si sposa, diventando madre e nonna. Fingendo e continuando sempre a fingere, come la vita nel lager le aveva insegnato a fare. Perché per una rom che teme di essere scoperta tale, non esiste possibilità di fidarsi di qualcuno e l’unica strada è quella di soffocare i ricordi, i desideri, le gioie e i dolori. Non si può essere se stessi se si vuole sopravvivere.
La solitudine di Malika prende forma in un vestito nel quale deve entrare – quello di Miriam – in una maschera che, se vuole continuare a vivere deve fare propria. Ma arriva per tutti loro il giorno in cui la coltre che copre il segreto si squarcia improvvisamente in maniera devastante e incontrollata. E’ il giorno in cui Miriam, distinta anziana, riceve un regalo dai suoi parenti: un bracciale di fattura rom.
La Giornata della Memoria non rappresenta solo il doveroso esercizio di sfogliare una pagina di storia. Essa ci introduce nel dramma di quanti, vittime dell’odio passato – ma anche contemporaneo – vestono maschere e vivono identità diverse come strategie di sopravvivenza, nell’attesa di spazi di accoglienza nei quali svelarsi. Anziani rom e sinti abitano la povertà e l’esclusione delle nostre periferie vivendo, come Miriam, questa attesa.