Società

Parto cesareo, in Italia è “epidemia”: nel 2015 il 34% dei bambini è nato così

Gli interventi sono aumentati a causa di “un processo di medicalizzazione che invade la scena del parto e condiziona l’autonoma scelta delle donne”. In trent’anni “abbiamo assistito a una vera mutazione antropologica e culturale”, spiega Sandra Morano, che di Optibirth è coordinatrice per l’Italia

Nascere? In teoria è la cosa più naturale del mondo. In pratica è un’operazione chirurgica su cui si addensano nubi di interessi economici, distorsioni culturali e non-risposte politiche. L’“epidemia” di parti cesarei dura da anni e non accenna a cambiare. Secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, nel 2015 in Italia il 34,1% dei bambini è nato con parto cesareo. Una leggera flessione – dello 0,7% – rispetto all’anno prima. Anno in cui, però, c’erano anche stati più parti: oltre 493mila nel 2014, poco più di 478mila l’anno dopo (-3,1%). Sopra la media nazionale la Campania, dove i cesarei arrivano quasi al 60%, seguita da Sicilia e Puglia. Ma anche Lazio, Molise, Sardegna, Basilicata e Calabria. Toscana e Valle d’Aosta le più virtuose. In Trentino Alto-Adige Bolzano, con il suo 10% di nascite chirurgiche, è quasi un modello. Ma i dati nazionali variano a macchia di leopardo e “ci sono ospedali in cui si arriva anche al 90% di tagli, toccando primati mondiali”, chiosa la ginecologa genovese Sandra Morano, trent’anni di servizio in sala parto.

Eppure non è sempre stato così. Nei lontani anni ‘80 i tagli cesarei rappresentavano il 10% del totale in Italia: un tasso che dal 1985 ad oggi l’Organizzazione mondiale della sanità e la comunità scientifica continuano a considerare “ideale”. Nel 2004, però, il quadro era decisamente cambiato, con una percentuale del 37,5% rimasta sostanzialmente invariata fino a un paio di anni fa. L’Italia detiene il record di cesarei tra i paesi europei, il cui tasso medio è inferiore al 25%. Anche se, avverte Morano, “c’è difficoltà nel raccogliere i dati e probabilmente nei paesi dell’est la situazione è peggiore. In Bulgaria si parla di un 45% di tagli. In realtà saranno molti di più”.

In Italia il costo extra di questa “vocazione” al cesareo è di 156 milioni di euro per almeno “160mila interventi non necessari”: parola di Optibirth, progetto europeo appena concluso i cui esiti verranno presentati oggi al Senato. Un programma di informazione e sostegno alle donne ad opera di ostetriche e ginecologi che ha coinvolto 15 ospedali in Germania, Irlanda e Italia. Paesi con un basso numero di VBAC (ovvero vaginal birth after cesarean, parti vaginali di donne che hanno subito precedentemente un cesareo). L’obiettivo? “Aumentare i parti naturali rispetto ai dati del 2012, informando le future mamme”. E per l’Italia così è stato: “L’epidemia può essere fermata. Dando alle donne la possibilità di scegliere”. Il cesareo, spiega l’Oms, se eseguito sulla base di specifica indicazione medica, può effettivamente ridurre la mortalità. “Ma non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino i benefici del parto cesareo per le donne e per i bambini per i quali la procedura non sia necessaria”: resta pur sempre un intervento chirurgico. Perché il numero dei tagli cesarei è schizzato alle stelle? Da Optibirth parlano di “un processo di medicalizzazione che invade la scena del parto e condiziona l’autonoma scelta delle donne”. In trent’anni “abbiamo assistito a una vera mutazione antropologica e culturale”, spiega Sandra Morano, che di Optibirth è coordinatrice per l’Italia. “Il parto oggi è visto come un evento rischioso, che provoca dolore: roba quindi da intervento e sala di rianimazione. Eppure le donne sono sopravvissute a secoli di nascite, anche in guerra e carestia”.

“Appena rimasta incinta del mio secondo figlio, il ginecologo mi ha detto che sarebbe stata una gravidanza difficile. Quindi di sicuro un cesareo”, racconta Sabrina, mamma di due bimbi. “Eppure avevo dato alla luce la mia prima figlia con parto naturale: tre ore di travaglio e una gravidanza serena”. A metà della seconda attesa Sabrina avverte dei dolori e va al pronto soccorso. “Non era niente. Anzi, lì le ostetriche mi hanno chiesto: ma perché deve fare il cesareo? Perché il mio ginecologo mi diceva che sarebbe stato meglio così: parto cesareo nella clinica privata dove lavorava. E io mi sono affidata”. Il taglio “è l’unico caso in medicina specialistica in cui si perpetra una violenza ostetrica, perché le donne non sono in grado di scegliere”, tuona Morano. “Si affidano al ginecologo. Ma il medico deve dire cose vere, non curare altri interessi. E invece le cliniche private vivono anche grazie ad alcuni medici che portano ‘pacchetti’ di donne da far partorire con cesareo”. Morano parla di “omertà” culturale anche da parte delle istituzioni. “Se solo il ministero della Salute facesse spot su questo invece che su altro…”, sospira. “Si è cominciato a dire che le donne hanno paura, che non ci sono strutture adeguate. Invece il punto è il passaggio dell’assistenza dell’ostetrica a quella del ginecologo: spostarsi verso una categoria specialistica ha portato alla medicalizzazione”, dice. “Nell’Europa del nord, dove questo spostamento non c’è mai stato, le donne hanno continuato a fare come prima”. Con gli stessi standard. “Dobbiamo invertire anche noi questa tendenza: che il cesareo faccia meno male non è necessariamente vero. E soprattutto evidenze scientifiche dimostrano che il parto più sicuro è fuori dall’ospedale, in case di maternità o a domicilio”.