Una procedura di concordato preventivo che in poche settimane avrebbe dovuto consentire di rinegoziare i debiti. E invece ha portato l’azienda a morire. Un imprenditore che perde i risultati di anni di lavoro. E le conseguenze che si riversano sulle 70 famiglie degli operai rimasti a casa e sui fornitori in gran parte ancora a bocca asciutta. È la storia della Fermet, l’azienda di Massa Carrara fino a quattro anni fa leader di mercato nel recupero di rottami ferrosi da cedere alle acciaierie di tutta Italia.
Fino a quattro anni fa, perché l’11 settembre 2012 tutto cambia. è questo il giorno in cui viene avviato il concordato in bianco, una procedura che al momento della presentazione lascia la strada aperta sia alla ristrutturazione del debito sia alla messa in liquidazione della società. Una delle prime procedure di quel tipo avviate in Italia con l’assistenza del noto tributarista Giulio Andreani. Ma è proprio il concordato a sancire la fine di Fermet, in una vicenda che come già raccontato da ilfattoquotidiano.it è finita all’attenzione della procura di Massa Carrara nell’ambito di un’inchiesta in cui è indagato lo stesso Andreani insieme ad altre quattro persone.
Fino a quel momento, infatti, l’azienda è sana, seppure di fronte a una momentanea carenza di liquidità. Lo dimostrano i numeri messi uno in fila all’altro nel ricorso straordinario che il titolare Alberto Ricciardi ha presentato al presidente della Repubblica. L’obiettivo del ricorso, analogo a quello di un’istanza presentata in procura nelle scorse settimane, è quello di ottenere la sospensione del concordato e salvare l’unico bene rimasto in pancia all’azienda: l’area dello stabilimento ex Italcementi, acquistata nel 2009 con una spesa di 5,5 milioni di euro, rinnovata con lavori per 5 milioni e oggi valorizzata dall’apertura lì accanto della strada dei Marmi, che unisce le cave al porto di Carrara. Un’area che ora è in attesa di essere assegnata agli imprenditori del marmo Franchi e Rossi, i soli a partecipare all’asta in cui il bene è stato offerto per soli 3,8 milioni.
I numeri elencati nel ricorso al Colle parlano di un progressivo “depauperamento” dei beni dell’azienda. E di fatturati fino al giorno del concordato in costante crescita: 101 milioni di euro nel 2009, anno in cui il settore siderurgico registra una crisi a livello nazionale, 187 milioni nel 2010, 255 milioni nel 2011, l’ultimo anno di normale operatività dell’azienda. Il 30 giugno 2012, poche settimane prima che Ricciardi venga convinto dai suoi consulenti al concordato preventivo, l’azienda ha una differenza tra i debiti (verso fornitori e banche) e i crediti verso i clienti di 15,6 milioni. Ma questa somma è più che compensata da quello che Fermet ha in attivo: 17,4 milioni di beni strumentali e 4 milioni di crediti verso l’erario. Se l’azienda venisse messa in liquidazione in questo momento, insomma, banche e fornitori avrebbero indietro tutti i loro soldi. E avanzerebbero pure più di 5 milioni, senza tenere conto del valore del marchio Fermet e dell’avviamento aziendale.
In realtà non c’è nessun motivo perché l’azienda venga messa in liquidazione, visto che “il valore investito al netto di tutte le voci debitorie – si legge nel ricorso – si pone al massimo valore storico della Fermet in 30 anni di attività, con un grado di espansione in grado di portare in breve tempo il fatturato ai massimi entro il 2014”. C’è però da fare fronte a una momentanea carenza di liquidità da 5,5 milioni, causata dal blocco dei rimborsi Iva da parte dell’Agenzia delle entrate per una serie di contestazioni fiscali che in seguito verranno ritirate e dalla mancata stipula di un mutuo già concordato con un istituto di credito.
La carenza di liquidità – è la ricostruzione presentata al Capo dello Stato – potrebbe essere superata concordando con banche e fornitori un rientro dei debiti ritardato, tanto più che la somma del valore delle materie prime in magazzino e del mutuo in fase di stipula coprono quasi del tutto la necessità di liquidità. E invece Fermet finisce in una procedura di concordato in bianco, nonostante non abbia ricevuto alcuna ingiunzione di pagamento. Qualche mese dopo il concordato cambia pure pelle: non è più finalizzato alla continuazione delle attività aziendali, ma alla liquidazione della società. Si aggiungono via via le spese per la procedura (1,2 milioni se ne vanno solo per le parcelle dei consulenti), una serie di beni vengono ceduti a valori inferiori a quelli di mercato, come ora rischia di succedere per l’area dello stabilimento finita all’asta. E il bilancio della liquidazione non può più essere in positivo, come sarebbe stato al momento dell’apertura del concordato. Ora mancano i soldi per compensare tutti i crediti dei fornitori, che devono pure fare fronte a un piano di riparto fermo da mesi nonostante le disponibilità presenti sul conto corrente di Fermet. E manca quel lavoro che i 70 operai non hanno più.
Twitter @gigi_gno