Quand’era ragazzo suo padre un giorno gli disse: “Tu sei la mia rivalsa contro Hitler”. Michel Kichka, infatti, non è semplicemente un vignettista, o un professore d’arte alla prestigiosa Bezalel Academy di Gerusalemme. È figlio di un ebreo di origine polacca che al tempo della Seconda Guerra Mondiale era appena un ragazzo. Di un sopravvissuto ai campi di concentramento, e in particolare, ad Auschwitz. La sua storia è anche un po’ la storia di tutti i figli nati dopo la Liberazione da chi riuscì a fuggire dallo sterminio nazista, e Michel Kichka la racconta in una graphic novel, intitolata La seconda generazione.
Un viaggio a tavole illustrate, esposte in anteprima assoluta al Museo ebraico di Bologna, in occasione del Giorno della memoria, il 27 gennaio, e fino all’8 marzo, che ripercorrono i silenzi e il dolore che per molto tempo hanno accompagnato la sua famiglia. “Perché, come racconta Kichka – spiega al fattoquotidiano.it Vincenza Maugeri, direttrice del museo e curatrice dell’esposizione – per tanti anni suo padre non è stato in grado di parlare degli orrori vissuti, della lunga marcia della morte che fu costretto a percorrere, nel 1945, assieme a 80 mila internati, quando le forze sovietiche giunsero nei pressi di Auschwitz e i tedeschi portarono via i prigionieri per non lasciare prove”.
Nato nel 1926 a Bruxelles da genitori ebrei di origine polacca, nel 1940 Henri Kichka assieme alla sua famiglia tentò di fuggire in Francia, ma cercando rifugio in un campo profughi, scoprì invece di essere finito in un luogo di prigionia. Riuscirono a scappare e a tornare a Bruxelles, ma appena due anni più tardi vennero deportati. Accadde una notte, durante un raid tedesco: due colpi alla porta di casa con il calcio di un fucile e il grido: “Alle Juden, raus!”. Da lì fu un susseguirsi di inferni molto simili ma dai nomi differenti, Mechelen, Sarkau, Blechhammer, e poi Auschwitz. Henri fu il solo a sopravvivere di tutta la sua famiglia.
Quelle memorie, quei ricordi di freddo, dolore e sofferenza, il padre di Michel, per anni e anni li tenne per sé, finché suo figlio minore, Charly, non si tolse la vita. Allora qualcosa scattò in lui, e da sopravvissuto, Henri divenne un testimone. “Fino a quel momento, tuttavia – spiega Maugeri – nella famiglia di Kichka non si parlava di queste cose. Il dolore traspariva dai piccoli gesti”. Dal numero che il padre portava tatuato sul braccio, dalle fotografie in bianco e nero abbandonate su uno scaffale, dal modo in cui sedeva a tavola, al momento di mangiare, da come ogni piccolo successo fosse interpretato come una rivincita, una sorta di riscatto nei confronti della vita, della morte, e soprattutto di Hitler e dei nazisti. “Ricordo che a casa si lamentava spesso – scrive Michel in una delle sue vignette – del tempo, del motore, delle moto, del flash che non funzionava, delle posate troppo lisce che gli scivolavano di mano, dei clienti che arrivavano all’ora di pranzo, o che non arrivavano. Si lamentava perché poteva, nei campi chi si lamentava lo curavano con un colpo alla nuca. Per sopravvivere, bisognava passare inosservati”.
“Michel cresce quindi in una costante atmosfera di rispetto nei confronti del padre e del suo passato, nel desiderio di soddisfare le sue aspettative e di non urtare la sua sensibilità. E solo in età matura, dopo il suicidio del fratello minore –“un’altra vittima della Shoah”, come lo definirà un amico di famiglia – deciderà di rappresentare la propria esperienza della Shoah: un’esperienza non vissuta direttamente, ma filtrata attraverso quella dei genitori”.
Le tavole in bianco e nero de La seconda generazione, da cui è stato tratto anche un film di animazione di prossima uscita, quindi, non sono solo una testimonianza in prima persona. Al di là del tratto ironico del Kichka autore di vignette satiriche, s’intravedono il dolore e alla desolazione vissuti dal padre e dalla madre, che a sua volta perse gran parte della famiglia nei campi di sterminio, e quella ferita profonda che lega tutti i sopravvissuti. C’è il silenzio di chi tornò e poi non fu creduto, perché i racconti della deportazione parevano troppo orribili per essere veri, e la vergogna per le umiliazioni subite. C’è la voglia di dimenticare, e il bisogno di ricordare.
“E’ una testimonianza di grande valore – sottolinea Maugeri – ed è per questo che è importante raccontarla proprio in occasione del Giorno della memoria: non per cercare il dramma facile, ma per la sua valenza storica. La memoria, infatti, è anche questo: arricchire il passato con elementi sempre nuovi, cercare, e non fermarsi mai. Solo così possiamo evitare che l’orrore si ripeta”.