Oggi, 27 gennaio, ricorrono i cinquant’anni esatti dalla tragica scomparsa di Luigi Tenco. Quando si parla di lui non ci si può limitare a ricordarlo per brani come Vedrai vedrai, Mi sono innamorato di te o Lontano lontano, insomma per i grandi successi, come succederebbe per un cantante qualunque. No, dopo le innovazioni che Tenco ha apportato al modo di intendere la canzone, la sua tragica fine al Festival di Sanremo lo ha trasformato, suo malgrado, in un simbolo. Secondo il sociologo Marco Santoro, per esempio, la sua morte ha creato un trauma collettivo e la «“fabbricazione” di un nuovo genere musicale e culturale in senso ampio – la canzone d’autore – e, insieme, la consacrazione di un’unità culturale e professionale, quella del cantautore» [M. Santoro, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, il Mulino, Bologna, 2010, p. 10].
La figura del cantautore è nata nei primi anni Sessanta, quando tra le potentissime case discografiche del tempo si era fatto strada il ruolo di chi si scrivesse e cantasse da sé le proprie canzoni. Nel caso di Tenco, questi brani avevano una scrittura raffinata, che veniva dal jazz, dal sassofonista con un gran senso del ritmo e della significazione armonica e melodica, dal forte acume compositivo per quella particolarissima forma d’arte. A tutto questo nel suo caso si univa l’intuizione che con le canzoni si dovessero veicolare dei messaggi importanti, che anche in amore non cedessero alla retorica melodrammatica: fu uno dei principali tratti distintivi della cosiddetta “scuola genovese” di cui si possono citare, oltre allo stesso Tenco, Paoli, De André, Lauzi, Bindi, Endrigo e altri.
Questo fece sì che, proprio nelle canzoni d’amore – più che in quelle cosiddette “impegnate” –, le caratteristiche di innovatore di Tenco fossero rivoluzionarie. A fronte degli amori irreali di Sanremo, che descrivevano sentimenti fatali e struggenti come icona da ripetere per far scattare commozione e applausi, Tenco cantava «mi sono innamorato di te/ perché/ non avevo niente da fare», in cui la quotidianità, con la sua enorme portata di autenticità, entrava prepotentemente nelle canzoni: brani che presentavano anche un abbassamento di linguaggio, perché quella stessa autenticità non fosse offuscata da sofismi pseudo poetici. Tutto questo Tenco lo capì meglio di chiunque altro, lo diceva nelle interviste e lo rappresentò a Sanremo nel 1967.
Tutti conosciamo l’epilogo e la sua tragica fine, dopo l’esclusione dalla finale per una manifestazione che così poco aveva a che fare col suo modo d’intendere le canzoni. Da quel momento, come dice Santoro, fu matura in Italia la coscienza che quella forma artistica potesse essere intesa in modo più autenticamente popolare, più vicina allo stile, alla sensibilità e alla poetica di chi si scrive e canta le proprie opere. Nacque, in altri termini, la canzone d’autore, espressione usata per la prima volta il 13 dicembre 1969 da Enrico de Angelis sulle pagine del quotidiano “l’Arena” di Verona, in un articolo – “Luigi Tenco, un utile ritorno” – proprio dedicato a Tenco.
Franco Fabbri, uno dei più importanti studiosi italiani e mondiali di popular music, ci dice che per far sì che ci sia un genere occorrono dei fatti musicali socialmente accettati. Le rivendicazioni artistiche dei fatti musicali che Tenco aveva contribuito a innovare, e che deflagrarono dopo quella sua tragica fine a Sanremo nel 1967, furono convogliate nella nascita del Club Tenco nel 1972, grazie al suo fondatore Amilcare Rambaldi. Il Club organizzò la prima edizione del Premio Tenco nel 1974: fra i principali fautori c’era proprio Enrico de Angelis, che a quel genere aveva dato un nome. I fatti musicali della canzone d’autore avevano trovato una comunità di riferimento nel nome di Luigi Tenco.
Ecco perché oggi non ricorrono solo i cinquant’anni dalla morte di uno dei migliori cantautori italiani, ma anche dalla definitiva emancipazione di un modo diverso d’intendere la forma canzone in Italia.