Nessuno poteva immaginare che alzare i muri, quelli legali che bloccano il movimento delle persone e delle merci, fosse così facile nel XXI secolo. In appena una settimana Donald Trump ha rovesciato completamente la politica del suo predecessore in relazione a questi due temi. E’ la fine della globalizzazione? Molti se lo chiedono. In un certo senso la risposta è sì, ma non perché il 45esimo presidente degli Stati Uniti ha con un colpo di penna riportato l’America all’isolazionismo dell’inizio del secolo scorso; piuttosto i motivi del ritorno alle mode degli -ismi che chiudono: nazionalismo, protezionismo, populismo ecc. è da attribuire all’eccessivo ottimismo che per decenni ha caratterizzato l’analisi di un fenomeno vecchio come il mondo, la globalizzazione, che sempre invecchiando diventa incontrollabile. Ed ecco perché oggi fa paura quello che tre decenni fa sembrava una conquista storica.

Ironicamente, all’inizio del secolo, quando si brindava quotidianamente alla globalizzazione, fu la politica della paura americana a convincere gran parte degli europei a seguire George W. Bush e Tony Blair in una guerra illegale e scellerata in Iraq. I motivi erano menzogne ma anche allora imperversavano le fake news, le notizie false. E così è stato gettato il seme del caos politico e dell’anarchia che oggi regna in molte regioni del mondo. E naturalmente queste sono tutte musulmane.

Come in un film di fantascienza dove passato, presente e futuro si intersecano, questa settimana, la paura del terrorista islamico, sempre lui che dal quel tragico 11 settembre influenza la politica estera di mezzo mondo, è stata presentata come giustificazione dell’ordine esecutivo “Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States” con il quale si blocca temporaneamente l’ingresso a cittadini di alcune nazioni: Siria, Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Il coro di voci contrarie ha fatto un boato che abbiamo sentito tutti. Ma Trump non è l’unico che sta facendo marcia indietro dentro il villaggio globale cancellando gli accordi del passato, è solo l’unico che suscita i lamenti del coro greco globale.

In Europa il problema dei migranti, e di come bloccarli non solo è all’ordine del giorno ma spesso diventa uno strumento politico nelle riaccese tensioni geopolitiche tra paesi limitrofi ad esempio tra la Grecia e la Turchia. Questa settimana la Corte Suprema greca ha bloccato l’estradizione di otto militari turchi accusati da Ankara di aver partecipato al fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso. Il motivo: se rimpatriati potrebbero essere uccisi. I militari erano atterrati ad Alexandroupolis il giorno dopo con un elicottero ed avevano chiesto asilo politico che ancora non gli è stato concesso.

Secondo il regime turco motivi politici di ostilità nei confronti del governo sono alla base della decisione presa dalla Corte Suprema. Tutto ciò mette a repentaglio l’accordo sulle migrazioni firmato dall’Unione Europea e dalla Turchia secondo cui chi arriva in Grecia dalla Turchia viene automaticamente rimandato indietro.

La politica di riammissione dei clandestini e dei migranti in Turchia è il muro europeo nei loro confronti. In cambio, la Turchia dovrebbe ricevere aiuti finanziari, l’esenzione dal visto per tutti i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e un’accelerazione dei negoziati per far entrare la Turchia nell’Unione europea. Turchia e Grecia hanno anche un accordo bilaterale sulla riammissione in Turchia dei clandestini.

Ankara ha detto chiaramente che sta considerando l’annullamento di questo accordo. Se così fosse la Grecia e l’Europa si ritroverebbero di fronte a ciò che è accaduto nel 2015, un esodo di migranti massiccio. A quel punto è molto probabile che si dovrà ricorrere a nuovi stratagemmi, e cioè alzare nuovi muri legali insieme a quelli veri, per bloccarne l’ingresso. Ma non basterà una firma per farlo!

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