Politica

Da Renzi a Valls, inutile la corsa al centro: la sinistra deve fare la sinistra

“La realtà è che la sinistra deve fare la sinistra”, dicono i sostenitori di Benoît Hamon, fresco vincitore delle primarie del Partito socialista francese per la corsa all’Eliseo. Ovunque in Europa si assiste al tramonto di quella sedicente sinistra che guarda al centro-destra. Un modello che è uno strascico della Terza via, e che in Italia ha goduto di ampia fortuna. Per ‘Terza via’ mi riferisco alla definizione storicamente accettata (con la maiuscola) e non al generico tentativo di incontro tra le istanze della destra e quelle della sinistra. Terza via, in sostanza, è quella di Blair (e Clinton).

Ora, quell’esperienza ha chiaramente avuto come obiettivo di ‘traghettare’ la sinistra dopo il crollo delle esperienze del socialismo reale (talvolta anche molto dopo) nella ‘modernità’. Non è un caso che in Italia l’operazione sia stata fatta anche attraverso una rivalutazione di Craxi come ‘statista’ e ‘modernizzatore’: D’Alema, Fassino, buona parte della dirigenza dell’ex Pci lo ha sostenuto, anche talvolta contrapponendo la figura del leader socialista a Berlinguer. Ogni caso andrebbe trattato a parte, ma in Italia il discorso della Terza via si è innestato su ciò che era accaduto alla Bolognina, in quella sorta di goffa Bad Godesberg italiana. La Germania ha fatto un altro percorso negli stessi anni, ma con risultati non meno disastrosi dal punto di vista della tenuta della sinistra e della garanzia di tutela contro le disuguaglianze.

A ogni modo, a un certo punto c’è stato un incontro della sinistra occidentale sui temi delle liberalizzazioni, della globalizzazione, della ‘deregulation’ e soprattutto della ulteriore flessibilizzazione del lavoro. In sostanza, la Terza via è stato l’esperimento di contemperamento delle esigenze del libero mercato con quelle della giustizia sociale. Quel tentativo di contemperare le istanze una volta ritenute così inconciliabili ha portato sfracelli sia per la sinistra che per l’intera società, consegnando la sinistra riformista legata mani e piedi allo strapotere della finanza globale. Più che un tentativo di addomesticamento del mercato, quella vicenda storica ha rappresentato la ‘resa’ del discorso della sinistra, l’illusione che in effetti il mercato potesse portare pace e prosperità. Oggi sappiamo che non è così. Fu una cantonata epocale. Due campioni ne sono stati (e ciò va ad arricchire la notevole serie di somiglianze tra i due) Massimo D’Alema e Matteo Renzi.

Il primo ha quanto meno la scusante (magra soddisfazione) di aver operato nella temperie culturale che produsse la Terza via. Renzi, al contrario, è stato blairiano fuori tempo massimo, quando già in Inghilterra con Miliband prima e con Corbyn poi, l’eredità di Blair veniva messa pesantemente in discussione e la sua linea politica sconfitta alle primarie del partito. L’insufficienza politica delle proposte di oggi di D’Alema e di Renzi è sotto gli occhi di tutti, le loro pesanti sconfitte anche. Renzi ha usato, per la propria scalata al potere, tutta una retorica giovanilistica che ha rimbombato ampiamente nei media ma che non aveva alcun appiglio nella società, tanto che il referendum è stato la plateale dimostrazione di come i giovani (soffocati proprio dalla ‘flessibilità’ del lavoro) non avessero affatto abboccato, votando massicciamente per il No alla riforma costituzionale proposta da quarantenne toscano.

E se al Pd occorre guardare come al soggetto potenzialmente riformista che finora però non è stato, è tuttavia vera che né D’Alema né Renzi possono essere gli interpreti di un ritorno delle questioni del socialismo. Francamente bisognerebbe avere un curriculum credibile. Ma prima ancora di parlare di leader, occorrerebbe parlare dello sviluppo di una riflessione culturale che produca un nuovo pensiero della sinistra per questi anni di impoverimento e di crisi. Un pensiero che riparta dal lavoro, bandendo la nefasta introiezione delle logiche di un’economia scatenata e rapace. Che riparta dalla cultura scappando a gambe levate dalla sua curvatura in senso manageriale e aziendalistico. Che riparta da un welfare universalistico che rifiuti la logica della mancia elettorale. Che ripensi, ancora, la democrazia e la rappresentanza.

Compiti titanici, che nessun leader da solo potrà caricarsi sulle spalle. Ma che potranno essere affrontati se la sinistra si aprirà non tanto alla società civile intesa come rappresentanza di interessi parrocchiali, ché altrimenti siamo punto e a capo, ma ai saperi che da troppo tempo vengono lasciati a languire nell’attesa del tocco magico del leader di turno.