Società

Maestra dimentica bimbo in cortile, ma forse gli iperprotettivi siamo noi

La notizia è rimasta confinata nelle cronache locali. Eppure ha dell’incredibile. È successo a Roma, il 21 settembre 2015, in una scuola primaria vicino a Parco degli Acquedotti, in zona Tuscolana. Al termine della ricreazione, la maestra non fa l’appello prima del rientro in classe (ma perché si fa l’appello anche finita la ricreazione? Insegnanti, illuminateci), e si dimentica un bambino nel cortile della scuola. Non in strada, non dentro un museo, non in pullman dopo una gita, ma nel cortile della scuola. Scrivono i quotidiani locali che  la bambina, o bambino, è rimasta “per diversi minuti sotto l’albero”, dove è stata ritrovata da alcuni genitori “rannicchiata, con tanto di grembiule” e “impaurita”. Qualche zelante mamma ha pensato bene di denunciare la maestra, e così l’insegnante è finita nel registro degli indagati per abbandono di minore e ora rischia il processo, visto che il procuratore aggiunto e il sostituto – due donne – hanno chiuso le indagini ed è probabile il rinvio a giudizio. Gli articoli si concludono sottolineando che “è stato un grosso rischio quello corso dalla scuola, tanto più elevato perché le indagini dei carabinieri hanno appurato che le serrature dei portoni della cancellata erano difettosi e rotti, e quindi chiunque avrebbe potuto entrare nel giardino della scuola”.

Ora, proviamo a raccontare le cose in un altro modo. Un bambino di sei anni esce per la ricreazione e probabilmente distratto da qualcosa, non nota che la classe rientra, oppure sì, ma forse non ha voglia di rientrare. Si mette sotto l’albero, magari osserva le foglie, guarda il cielo. Ha sei anni, che sono tantissimi, e sta dentro la sua scuola, che cosa dovrebbe temere? Conosce perfettamente il percorso per rientrare in classe, dove sta il pericolo se per dieci, venti, o trenta minuti resta da solo in cortile? Siamo noi che ce lo immaginiamo terrorizzato, distrutto dalla paura, incapace di fare alcunché. Siamo noi, ossessionati dalla protezione dei nostri figli, quasi sempre unici, che proiettiamo su di lui un’immagine di debolezza, incapacità di difendersi. Come se i ragazzini fossero privi di difese. Dei poveretti che noi adulti dobbiamo controllare costantemente, ossessivamente, anche quando sarebbero pronti di volare con le loro piccole ali. Solo da questa mentalità può scaturire la denuncia a una maestra colpevole unicamente – ma sapete cosa significa stare in una classe con 25 bambini tutti diversi, provate a chiederlo a chi lo fa – di non aver contato uno per uno i bambini dentro la sua stessa scuola. Un errore, certo. Ma cinquant’anni fa, forse, quel bambino avrebbe ricevuto due ceffoni, e qualcuno gli avrebbe chiesto severamente come mai non fosse tornato in classe, invece di starsene seduto là fuori. Non sono sicura che sarebbe stato peggio.

Si spera che il tutto si risolva senza sanzioni anche da parte del Ministero. Perché una diversa soluzione confermerebbero, appunto, che i nostri figli sono esseri inermi. Incapaci di sopravvivere a qualsiasi minimo incidente, variazione della routine quotidiana, piccolo pericolo, micro traumi. Cose che capitano costantemente. Proteggendoli in maniera asfissiante – e denunciando anche chi non li protegge in maniera asfissiante, cioè come noi pensiamo sia giusto fare – gli facciamo un danno enorme. Perché diventeranno adolescenti che non sopportano alcuna frustrazione, e adulti incapaci di vivere nella realtà, che appunto è piena di problemi, conflitti, pericoli. E allora forse potremmo pensare che quel bambino fosse realmente paralizzato, incapace di rientrare in classe, proprio perché nessuno gli aveva insegnato l’autonomia. Rendendolo, prendete il termine con le pinze per favore, un piccolo semi-handicappato.

C’è un libro fantastico di due scienziati-esploratori, Kathrin Passig e Aless Scholz, che si chiama Perdersi m’è dolce… Piccolo manuale per perdere l’orientamento e imparare a vagabondare senza meta (Feltrinelli), in cui i due autori raccontano i loro esperimenti di smarrimento volontario in zone assolutamente impervie del pianeta, e spiegano come riescano a salvarsi. Dicono i due che chi non ha mai provato l’esperienza del perdersi, e magari si muove solo affidandosi al gps, rischia di morire molto di più se per caso l’apparecchio si rompe o gli capita casualmente un incidente che lo lascia senza strumenti in una landa desolata (persino vicino casa o in una città).

Vale l’analogia per il discorso che stiamo facendo: se impediamo che i nostri figli non abbiano alcun tipo di trauma lo esponiamo a pericoli maggiori (una tesi che qualsiasi psicoanalista, d’altronde, sosterrebbe). Avrebbe dovuto saperlo quella madre che, insensatamente, ha pensato di andare dai carabinieri a denunciare una persona – che poi, casomai, avrebbe dovuto denunciare la scuola, probabilmente c’è una procedura che non funziona bene – per un incidente che di grave non ha davvero nulla.