di Flaminio de Castelmur per SpazioEconomia

Brexit, l’elezione di Trump e le inquietudini in numerosi Stati della Ue sono i sintomi di un nuovo nazionalismo, che ha le sue radici nell’avversione verso la globalizzazione e i suoi effetti quanto a flussi migratori, riorganizzazione delle catene produttive e delocalizzazione. E verso i trattati di libero scambio come Tpp (Trans Pacific Partnership) e Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Non a caso la Banca Mondiale lo ha considerato uno dei maggiori presupposti sui quali ha poggiato previsioni al ribasso per l’economia mondiale nel 2017. Ma un ritorno a politiche protezionistiche è concretamente realizzabile?

Chiaramente no. L’incremento di dazi e barriere al commercio è generalmente vietato (salvo specifiche eccezioni) dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Interventi protezionistici comporterebbero, quindi, un’inevitabile lunga serie di ricorsi all’Organo di soluzione delle controversie dell’Omc, che ha il riconosciuto potere di imporre agli Stati membri di riportare la propria legislazione in conformità agli impegni sottoscritti. Ove lo Stato soccombente persista nella sua violazione, il ricorrente potrà imporre sanzioni commerciali a titolo di contromisura (ossia applicare dazi o altre misure restrittive nei confronti dello Stato inadempiente). La conseguenza sarebbe una vera e propria escalation di barriere, con effetti disastrosi sugli scambi commerciali e le economie nazionali.

L’Amministrazione americana, con il nuovo Presidente Trump, ha in programma una serie di iniziative volte a limitare le importazioni di merci dall’estero. Ma, a detta degli esperti di commercio internazionale, rischia l’effetto boomerang, non solo sul Nafta ma anche nel caso delle migliaia di nuovi posti di lavoro già garantite in Usa, se vogliamo anche opportunisticamente, da diverse case automobilistiche e anche Amazon e Wal-Mart.

Il problema nascerebbe dal fatto che, se si assume oggi a costi maggiori, sarà un problema domani per le aziende produrre di più ed esportare. Gli Stati Uniti hanno un grande mercato interno e forse possono correre questo rischio, ma il prezzo da pagare potrebbe essere comunque alto. Senza contare che il protezionismo disincentiva l’innovazione, che funziona solo quando c’è vera concorrenza.

Wilbur Ross, responsabile per il Commercio dell’Amministrazione Usa, pensa che i dazi doganali “avranno un ruolo importante nel correggere le pratiche inappropriate”. Riguardo la Cina per esempio, Trump ha avvertito che imporrà il 45% di dazi sui prezzi dei prodotti cinesi che entrano in America. E ha anche minacciato di stabilire dazi del 20% con il Messico, che invece grazie al Nafta, firmato nel 1994 da Bill Clinton, gode della assenza di tariffe.

Sarebbe utile però che Trump spiegasse agli americani che introdurre dazi, contingentamenti e protezioni contro i prodotti importanti avrebbe come conseguenza un aumento dei prezzi di gran parte dei prodotti in vendita nei negozi americani, dagli smartphone ai jeans, dalle televisioni ai Pc.

La proposta di legge che più di altre spiega quali saranno le mosse probabili degli uomini di Trump, si chiama Bat, Border Adjustment Tax (tassa di rettifica alla frontiera), e prevede che le imprese statunitensi possano escludere i ricavi da esportazioni dal calcolo del proprio imponibile fiscale, ma che non possano più detrarre i pagamenti a fornitori esteri, incluse proprie controllate. Con tale proposta, che agisce sul reddito d’impresa attraverso i suoi flussi di cassa, le esportazioni statunitensi diverrebbero più competitive e le importazioni più onerose. Il beneficio alla bilancia commerciale indotto dalla tassa di frontiera determinerebbe un apprezzamento del dollaro, che compenserebbe la maggiore onerosità delle importazioni.

Se tale “tassa di confine” superasse l’esame dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vi sarebbero pesanti ricadute sui settori economici statunitensi: le aziende del commercio al dettaglio, che importano massicciamente dall’estero, soprattutto beni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento) e rivendono con margini unitari molto bassi, finirebbero nei guai.

Guai estesi a molti settori perché nel mondo attuale, in cui la produzione industriale ha carattere globale, export e import non sono facilmente separabili: se si guarda al top 1 per cento delle imprese esportatrici americane, il 90 per cento sono anche importatrici.

La politica protezionistica degli Usa non potrà che scatenare reazioni a catena negli altri paesi, dal Messico, alla Cina, all’Europa, riducendo ulteriormente gli scambi e, di conseguenza, indebolendo tutte le economie. Questa svolta nella politica economica internazionale avrà un impatto anche in Italia. Vale ricordare che le nostre esportazioni negli Usa superano 40 miliardi di euro, il 10% del totale, seconde solo a Germania e Francia. Certo, non c’è protezionismo che possa interamente sostituire il Made in Italy nel mercato più ricco del mondo.

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