Cinema

Oceania, l’ultimo capolavoro Disney fa riscoprire mondi perduti

Velocissime zattere a vela volano sulle onde dell’oceano, come nella fantasia dei nostri bambini, la guida Maui un semidio borioso che riesce ad imbrigliare anche il vento e poi Vaiana Waialiki figlia ed erede del capo della piccola isola polinesiana di Motonui. Naturalmente, parliamo di Oceania, l’ultimo capolavoro Disney che racconta l’epopea dei popoli del mare del Pacifico. A chi non conosce la storia della navigazione può sembrare un racconto inventato, invece, attinge a piene mani alla realtà, anzi al mistero che avvolge le origini della colonizzazione di piccoli arcipelaghi di isole così lontane dai grandi continenti. Come ha fatto l’uomo ad arrivare lì in tempi così remoti? Di quali barche e strumenti disponeva?

Non è facile rispondere a questa domanda perché più che dati storici o archeologici bisogna indagare. Di quegli eroi naviganti che nel nostro Mediterraneo furono i Fenici abbiamo quasi perso la memoria proprio come nel film di Disney dove gli abitanti di Motonui non ricordano più da dove sono venuti, tanto da avere paura del mare e non attraversare più il reef (barriera corallina) che li “protegge” dall’Oceano. Una storia che un po’ assomiglia alla nostra che spesso dimentichiamo la nostra identità mediterranea.

In Oceania sarà la principessa Vaiana entrando in una grotta segreta a riscoprire le origini della tribù e trovare tra le rocce delle immense zattere a vela capaci di trasportare per gli oceani intere popolazioni migranti che come Colombo partivano alla scoperta dell’ignoto senza avere una meta precisa. Il loro Eldorado si chiama oggi Polinesia, un arcipelago infinito di isole nelle quali ci si può perdere (o ritrovarsi a seconda dei gusti e della sensibilità!), e riuscirono a rintracciarlo solo grazie alla conoscenza dell’oceano, all’intimità che avevano raggiunto con il mare e le sue dinamiche. Queste genti con ogni probabilità, come dimostrò l’esploratore norvegese Thor Heyerdhal, venivano dal Perù e appartenevano alle popolazioni Inca, navigarono nel Pacifico per più di quattromila miglia (più di settemila kilometri) prima di trovare la terra promessa e annunciata dagli Dei.

Essi avevano non solo fede nei propri mezzi, ma una grande consapevolezza e cioè che sul mare anche a grande distanza dalla terra si riesce a sopravvivere per mesi, la distesa blu non è certo arida, ma pullula di vita e di opportunità per chi le sa cogliere. Se non ci credete provate a navigare anche nel nostro Mediterraneo quando la terra non si vede più e vi accorgerete dei meravigliosi incontri con delfini, tartarughe e capodogli!

Le genti dell’America del Sud navigavano nell’oceano con grandi zattere fatte da tronchi di balsa modellati in modo da essere quanto più aerodinamici è possibile e provvisti di rudimentali palette stabilizzatrici in modo che l’imbarcazione non si capovolgesse con le tempeste. I tronchi erano anche cavi all’interno per contenere una adeguata riserva di acqua. La coperta veniva realizzata in bambù solidamente legato e coperto da stuoie dello stesso materiale, il mezzo di propulsione era una grande vela quadra e quello di governo un lungo timone a forma di remo.

A chi non crede che con un mezzo del genere si possa affrontare l’oceano ha risposto proprio Thor Heyerdahl, il quale alla fine degli anni Cinquanta si è autocostruito una zattera e ha realizzato lo stesso viaggio dei popoli equadoriani e peruviani arrivando alla meta. La sua avventura con tutti i dettagli e le strategie di sopravvivenza è raccontata in un libro classico del mare “Kon Tiki” che prende il nome dal Dio del sole. Ma se Heyerdahl conosceva la rotta da seguire, come ci riuscirono i primi navigatori? Si tratta certamente di popoli incredibili, gli stessi che realizzarono le leggendarie teste di pietra nell’isola di Pasqua, i quali avevano grandi conoscenze astronomiche, navigavano con le stelle e sapevano interpretare i segni della natura, il volo degli uccelli, i venti, le correnti, e tutto quello che trovavano sulla superficie, legni, alghe indicava la via della terra. I capitani di allora erano quasi degli sciamani con una straordinaria sensibilità che oggi fidandoci ciecamente della tecnologia abbiamo perduto.

Il messaggio che la storia di quei popoli ci consegna, quello che Maiana di Motonui grida a Maui il semidio è che solo tornando in simbiosi con la natura potremo ritrovare noi stessi e ritornare ad avere la capacità di andare oltre orizzonti sconosciuti, scoprire altri mondi, sperimentare nuove forme di sopravvivenza.