di Mariaclaudia De Gregorio *
Il lavoratore che beneficia dei permessi mensili per assistere una persona con handicap o con patologia invalidante ha il diritto di organizzare l’assistenza secondo orari e modalità flessibili, che gli consentano di provvedere adeguatamente alla cura dell’assistito. Senza trascurare le proprie esigenze personali. Ad affermarlo è una recente sentenza della Corte di Cassazione, sezione Penale, la n° 54712 del 23 dicembre 2016. La pronuncia riveste particolare importanza per aver fornito un’interpretazione innovativa ed equilibrata dell’art. 33 della legge 104/1992 sui permessi retribuiti, discostandosi nettamente dall’orientamento restrittivo ad oggi prevalente.
Secondo la Suprema Corte, se è chiaro che il lavoratore non può utilizzare i permessi retribuiti della legge 104/1992 come se fossero dei giorni di ferie, deve esserlo anche il suo diritto “di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali”. Ed invero, i permessi retribuiti rispondono ad una duplice finalità. La prima è quella di garantire maggiore continuità e qualità all’attività di assistenza, la seconda di consentire al lavoratore che la presta di conciliarla più facilmente con l’attività lavorativa e, non da ultimo, con le proprie esigenze di vita.
Questa lettura non trova ostacolo nella legge, che nulla dispone all’art. 33 in merito alle modalità di corretto impiego dei permessi retribuiti. Queste modalità, pertanto, vanno ricostruite secondo ragionevolezza e buon senso. Ne consegue che “nei giorni di permesso, l’assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l’orario lavorativo”, e il lavoratore deve “poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle attività che non sono possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all’assistenza”.
In altri termini, secondo la Suprema Corte, l’esclusione di ogni forma di flessibilità nell’impiego dei permessi retribuiti esporrebbe al grave rischio di frustrare lo spirito della legge e di sanzionare senza distinzioni sia le condotte legittime sia quelle fraudolente.
Tuttavia, i principi enunciati dalla sentenza in commento sono tutt’altro che consolidati. La sentenza, difatti, si pone in diretto contrasto con l’orientamento restrittivo seguito dalla Sezione Lavoro della Cassazione. Secondo la tendenza prevalente, il comportamento del lavoratore che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga, anche solo parzialmente, dello stesso non per l’assistenza, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, con potenziali gravi conseguenze sia sul fronte civile sia su quello penale.
Più precisamente, il datore di lavoro può, anche servendosi di un’agenzia investigativa per accertare e contestare al lavoratore l’uso scorretto del permesso, procedere legittimamente al suo licenziamento per giusta causa. Inoltre, il lavoratore sarà per lo stesso fatto potenzialmente perseguibile per il reato di truffa ai danni dell’Inps (art. 640, co. 2, n.1, c.p.). Conseguenze che, secondo l’orientamento prevalente, rischiano di abbattersi senza distinzione sia sul lavoratore che usa i permessi per andare in vacanza sia su quello che, dopo un’intera giornata di assistenza, decide di recarsi ad una festa in serata.
E’ chiaro che, alla luce di un orientamento così rigoroso, la recentissima sentenza della Suprema Corte acquista notevole importanza in quanto fornisce validi argomenti per un ripensamento dell’orientamento prevalente, aprendo cautamente a nuovi spazi di tutela per i lavoratori onesti. L’insegnamento della Corte di Cassazione potrà essere impiegato dal lavoratore per contestare il fondamento degli addebiti a suo carico, in un eventuale giudizio. A seguito della recente pronuncia, difatti, sembra che l’onere del datore di lavoro di provare la giusta causa del licenziamento sia destinato ad aggravarsi, e non di poco.
Ed invero, il lavoratore che ha prestato assistenza, osservando i margini di flessibilità descritti, potrà difendersi in giudizio sostenendo che la propria condotta è priva di ogni rilevanza disciplinare, perché legittima, e il licenziamento irrogatogli non è semplicemente sproporzionato ma privo di fondamento materiale, ancor prima che giuridico. In caso di accertamento dell’assenza del fatto costitutivo il licenziamento, il grado di tutela potrebbe anche essere elevato (reintegrazione) anche in regime di Jobs Act. Ciò, chiaramente, se l’azienda occupa almeno 16 dipendenti.
In conclusione, il largo abuso a cui i permessi retribuiti si sono da sempre prestati è un dato di fatto che, per quanto intollerabile, non può e non deve trovare compensazione in licenziamenti indiscriminati, in danno anche dei lavoratori onesti. Per tali ragioni, e finché il legislatore non interverrà con maggiore precisione, la giurisprudenza ha il dovere di soccorrere con senso della realtà, fornendo soluzioni e criteri equilibrati.
* Giuslavorista. Sono una giovane professionista abilitata di recente all’esercizio della professione forense. La mia passione per il diritto del lavoro risale all’Università. Ciò che amo di questa branca del diritto è l’umanesimo che la caratterizza, il suo profilo assistenziale e la sua grande attualità.