Dei richiedenti asilo che arrivano in Italia, solo il 15% entra nel circuito "Sprar", più controllabile in fatto di conti e gestione. La stragrande maggioranza finisce nei "Cas", strutture emergenziali intorno alle quali le prefetture fanno muro. Le associazioni denunciano decine di casi di servizio sotto la soglia richiesta dai bandi, ma spesso rimuovere i gestori inadempienti è impossibile
Due sistemi di accoglienza paralleli: uno “ordinario”, l’altro “d’emergenza”. Uno dà maggiori garanzie di trasparenza, ma ospita il 15% dei migranti. L’altro è il regno dell’opacità, ma alle sue strutture viene affidato oltre il 80% dei migranti. Il primo si chiama Sistema di protezione richiedenti asilo (Sprar): nel 2017 il Ministero dell’Interno ha rinnovato la convenzione dei suoi oltre 600 centri, con il progetto di potenziare ulteriormente il sistema. L’altra metà del cielo è il sistema dei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria. Su circa 175mila migranti in strutture d’accoglienza, 23mila sono negli Sprar, 137mila nei Centri di accoglienza straordinaria, secondo i dati del Viminale del 12 gennaio. Gli altri sono in centri di prima accoglienza e hotspot.
“Questo comporta una serie di problematiche operative nella gestione del fenomeno sul territorio, vista la necessità delle Prefetture di individuare strutture straordinarie – spiega Enrico Di Pasquale della Fondazione Leone Moressa, che studia gli effetti economici dell’immigrazione – l’altro elemento di spicco è relativo alla distribuzione dei migranti sul territorio nazionale: se è vero che negli ultimi anni le regioni del Nord hanno aumentato notevolmente il numero di migranti accolti, questo è avvenuto soprattutto attraverso i Cas, con una scarsa partecipazione dei Comuni alla rete Sprar”. A oggi la concentrazione di migranti in centri Sprar per ogni comune è di 0,39 ogni mille abitanti, mentre il Viminale vorrebbe arrivare ad una soglia massima di 2,5 richiedenti asilo ogni mille abitanti ed eliminare (o ridurre al minimo) i Cas.
Per i quali “non c’è trasparenza nemmeno sul numero dei posti attivati”, spiega Laura Liberto dell’associazione Cittadinanzattiva, che insieme alla campagna LasciateCIEntrare e a Libera, ha lanciato a febbraio 2016 un monitoraggio nazionale. Hanno spedito 106 richieste alle Prefetture per avere accesso ai dati, negato del tutto o in parte in oltre 9 casi su 10: “C’è ancora pendente da oltre un anno e mezzo un ricorso al Tar del Lazio rispetto al diniego della Prefettura di Roma”, spiega Liberto. Il motivo? Il dato è sensibile. Al contrario degli Sprar, i cui dati sono facilmente reperibili.
Dallo scoppio del caso Mafia Capitale, anche l’Autorità nazionale anticorruzione ha cominciato a monitorare gli appalti degli enti gestori dell’accoglienza (che spaziano dalle cooperative agli hotel) soprattutto “in emergenza”. Le ultime irregolarità le ha rilevate in Campania: 67 contratti stipulati tra il 2011 e il 2012, tramite affidamenti diretti con strutture alberghiere. Era il tempo dell’Emergenza Nord Africa: le modalità di affidamento degli appalti sono cambiate ben poco.
I CONTROLLI CHE NON CI SONO – Per legge, sono le Prefetture a dover controllare le strutture di accoglienza, di qualunque genere. Un lavoro immane: nel caso di quella di Milano, per esempio, ci sono tre persone che dovrebbero coprire circa 20mila posti. Il risultato è che si esce quasi solo su segnalazione di irregolarità. A meno che non si deleghi il controllo a qualcuno. Come accade per gli Sprar, dove esistono visite annuali che il Ministero delega al Servizio centrale, il quartier generale dello Sprar. Nel caso dei Cas, le visite sono spesso concordate in precedenza e si limitano a un colloquio con il gestore. L’effetto è nullo.
CAS: CONTI SEGRETI E SPAZIO AGLI ABUSI – Nei Cas – calcola la Fondazione Leone Moressa – la rendicontazione dei costi è pressoché inesistente. “Si chiede quanti sono i richiedenti asilo presenti nelle strutture. Punto”, spiega un esperto di immigrazione che preferisce restare anonimo. Ogni presenza corrisponde ad un prezzo corrisposto dalla Prefettura a seconda del capitolato dei lavori, che parte da 35 euro e premia molto chi contiene i costi. Anche se a discapito della qualità dei servizi. Per chi vuole fare dell’accoglienza un business, il gioco è facile: basta scrivere nel progetto una serie di attività che poi non vengono svolte. E i soldi entrano in cassa. I conti delle strutture esistono “ma non è possibile avere accesso dall’esterno”, dice ancora Liberto. E il discorso vale non solo per i flussi economici, ma anche per i corsi di italiano e le altre attività previste nei centri.
SEGNALANO CARENZE, MA SI TENGONO LA STESSA COOP – Il procedimento per le segnalazioni non è “standard”. Di solito si manda una mail di posta certificata alla Prefettura, che in quel caso dovrebbe intervenire. E non accade spesso. Ma anche le volte che accade, poi, la Prefettura si trova con le mani legate. E l’appalto torna a chi è stato denunciato. Questo paradosso si è visto ad esempio, con la KB srl, società gestita nel varesotto da Katia Balasino e dal marito Roberto Garavello. Da maggio dell’anno scorso i migranti lamentavano condizioni igieniche ingestibili. Balasino a settembre ha detto di essere pronta a lasciare tutto: trattasi di 600 posti su 1.800. Impossibile trovare un’alternativa. Così, nonostante la stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sui centri d’accoglienza abbia certificato, ad inizio novembre, l’inadeguatezza delle strutture, a ora sono le uniche soluzioni possibili.
MAFIA CAPITALE E L’ACCOGLIENZA – Milano, 12 ottobre 2016. Dopo un anno e mezzo dalla prima segnalazione, il prefetto Marangoni fa chiudere il centro di accoglienza straordinario da 110 persone della cooperativa InOpera per le condizioni igieniche inadeguate. Era stato già sospeso nel marzo 2015, poi la stessa Prefettura aveva dovuto reintegrarlo. “Tuttora, a Milano, prova a partecipare, ma fino adesso mi risulta che la cooperativa per ora sia stata esclusa”, continua l’esperto di immigrazione. Ma InOpera agisce anche a Roma, dove ha vita più semplice. Tra il 2014 e il 2016 lavorava spesso in associazione temporanea di impresa con le cooperative del consorzio La Cascina, gruppo controllato da Salvatore Buzzi, l’uomo di Mafia Capitale. Le strutture non gestivano solo Cas, ma anche posti Sprar, di cui uno – riporta il report di Lunaria intitolato “Il mondo dentro“, uscito a novembre – è stato anche chiuso. Altri continuano a restare aperti. Il paradosso è che, con la stessa cooperativa, i posti Sprar riescono a mantenere un certo standard, mentre i Cas no.
Tra gli esempi negativi segnalati da Lunaria c’è quello di Integra, altra cooperativa che gestisce centri in tutta Italia. Nel 2015 viene sospesa temporaneamente dalla Prefettura di Milano: i suoi ospiti vengono trasferiti in altri centri milanesi. Eppure, a febbraio 2016, gestisce nove centri di accoglienza. Il Naga, associazione che si occupa di assistenza ai migranti, ha pubblicato nel febbraio 2016 un rapporto in cui emerge come uno degli enti gestori peggiori: affitti di strutture non pagati, pocket money non erogati, lezioni inesistenti. Fin dal 2015 è oggetto di numerose segnalazioni. Eppure continua a ricevere centri in gestione.