C’è una battaglia in corso per i cuori e le menti in Europa. Da un lato c’è chi non si limita soltanto a criticare il modo in cui funziona l’Unione europea, i suoi squilibri, le sue rigidità, ma ne rimette ormai in discussione i valori di fondo: il superamento dei tragici nazionalismi del Novecento, la tensione verso una democrazia sovranazionale che consenta di gestire la globalizzazione invece di subirla, l’agire come un catalizzatore di cambiamento democratico in una zona di influenza contesa da regimi autoritari come la Russia o degenerazioni islamiste. Dall’altro lato, solo contro questo schieramento ormai egemone nel dibattito pubblico, c’è rimasto soltanto il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi.
I leader di partito o i capi di governo osservano, ignavi, incapaci di rivendicare i valori che dovrebbero difendere e limitandosi a denunciare la vacuità delle promesse populiste, all’inseguimento poco efficace dell’agenda xenofoba e securitaria fissata dai loro avversari politici.
Sta vincendo chi predica muri, nazionalismo, cinismo, ammira l’autocrate Vladimir Putin, esulta per le prime mosse di Donald Trump e sogna una moneta debole per affogare nell’inflazione problemi atavici, senza curarsi della perdita di potere d’acquisto dei più indifesi a reddito fisso. Questi imprenditori della paura stanno vincendo perché nessun leader ha il coraggio o la forza di Mario Draghi nel rivendicare la posta in gioco.
Ieri il presidente della Bce era in Slovenia, a celebrarne i 10 anni di permanenza nell’euro: lì la moneta unica ha ancora un consenso dell’85 per cento. Il discorso di Lubiana ha un’importanza politica paragonabile a quella finanziaria del famoso “whatever it takes” del 26 luglio 2012 che ha rassicurato i mercati sulla “irreversibilità” dell’euro.
In Slovenia Draghi ha spiegato perché la moneta unica è politicamente irreversibile: cancellarla significa invertire il processo che c’è dietro, quel faticoso tragitto che è cominciato mettendo in comune carbone e acciaio sessant’anni fa ed è arrivato a oggi, all’unione bancaria, a Schengen, all’abolizione del roaming telefonico e così via.
Pur fra mille incertezze e rigidità burocratiche, quella dell’integrazione è una storia coerente, non una sommatoria di tasselli tra loro indipendenti. Fin dal 1957 il progetto europeo si è retto sulla tensione verso il mercato unico che – ricorda Draghi – è stato la base dell’integrazione ma anche il volano per ulteriori sviluppi: la spinta all’apertura ha favorito la nascita di istituzioni che garantissero la parità di trattamento, come la Corte di Giustizia e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. L’euro non è stato una fuga in avanti, un modo per tenere impegnate le élite e le burocrazie in assenza di un’unione politica, e neppure un progetto di conquista tedesco: semplicemente, per costruire un mercato unico la moneta unica era “desiderabile se non addirittura essenziale”.
Draghi riassume così la situazione, dopo il crollo del sistema di Bretton Woods e con la Guerra Fredda ormai vicina al termine: “La paura era che, senza una moneta unica, i ripetuti cicli si svalutazioni avrebbero distorto le condizioni per una competizione equa e minato il mercato unico nel lungo periodo. Un’economia che avesse aumentato la sua produttività e competitività avrebbe potuto essere privata dei benefici che le spettavano, in termini di maggiori quote di mercato, a causa del deprezzamento della valuta nei Paesi concorrenti. E se alcuni paesi erano pronti a praticare questa strategia predatoria ai danni dei vicini (beggar thy neighbour), perché gli altri avrebbero dovuto aprire a loro in modo permanente i propri confini?”.
Quelli che raccontano la favola in base alla quale uscire dall’euro risolve tutti i problemi, dovrebbero riflettere a lungo su queste parole di Draghi: se noi siamo gli unici furbi in un continente di idioti, allora sì, ci conviene. Usciamo, svalutiamo, competiamo. Ma se gli altri non sono così imbecilli come noi li consideriamo, eviteranno i comportamenti predatori ai loro danni segmentando il mercato unico, alzando barriere dove oggi l’uguaglianza di condizioni competitive le ha fatte cadere, o usando la nostra stessa leva monetaria.
La conclusione di Draghi è coerente con le sue premesse: “E’ chiara la strada da seguire per la nostra unione. Non smontare quello che ha funzionato: il nostro modello di apertura economica rafforzato dalla moneta unica. Ma bisogna correggere gli errori che gli hanno impedito di funzionare come avrebbe dovuto”.
In sintesi, gli errori sono questi: con l’euro i Paesi rinunciano a strumenti di aggiustamento della propria condizione nel breve periodo (deficit spending, svalutazione, barriere protezionistiche) in cambio della condivisione dei benefici che l’apertura del mercato porta all’intera unione monetaria in termini di riduzione dei rischi di cambio, maggiore stabilità dei prezzi, certezza delle condizioni negli investimenti, minori tassi di interesse sul debito.
Indebolire il processo di convergenza, reclamare spazi nazionali di azione per proteggere questa o quella categoria prima delle elezioni, violare le regole in modo sistematico, rifiutare ogni ulteriore condivisione di sovranità: sono questi i comportamenti – di molti governi e di parte (minoranze rumorose) dei loro elettori – che deformano il progetto dell’euro trasformandolo in una gabbia invece che nella tappa intermedia verso un’Unione sempre più coesa.
In queste settimane su Twitter e in qualche talk show si discute animatamente delle tecnicalità dell’uscita dall’euro per l’Italia, un paper di Mediobanca Securities ha innescato un dibattito su quanto debito è regolato dalla legge italiana, quando in valuta straniera, per non parlare delle accese polemiche sull’interpretazione corretta degli squilibri finanziari nei flussi tra banche centrali nel sistema Target 2. Ragazzi, calmiamoci un attimo.
Restare nell’euro o uscirne non è una questione procedurale. Significa discutere se vogliamo seguire la traiettoria di questi ultimi sessant’anni di costruzione dell’Europa o tornare, tra mille traumi, al continente ridotto alla fame dai suoi conflitti intestini di sessant’anni fa. Rinunciare all’euro, a questa Unione europea, all’apertura dei mercati, significa sconfessare quei valori per i quali siamo pronti a marciare e a commuoverci dopo ogni attentato terroristico.
C’è in corso una battaglia per i cuori e le menti degli europei. Mario Draghi ha scelto di non arrendersi. Per il bene della nostra generazione e di tutte quelle che seguiranno, c’è da sperare che qualcuno trovi il coraggio di seguirlo e di affrontare una sfida che oggi sembra disperata perché i difensori dei valori europei negli ultimi anni hanno abbandonato il campo, spaventati dalle urla feroci di predicatori di paure e miracoli interessati soltanto a conquistarsi un po’ di visibilità e magari un seggio in qualche Parlamento.