Virginia Raggi non deve dimettersi. Così come non deve spiegare in pubblico le questioni, anche politiche, che sono state oggetto del suo interrogatorio. Sarebbe la definitiva abdicazione a quella perversione giuridico-sociale che è stata più volte chiamata ‘pop justice‘. Con questa si intende la trasformazione della giustizia e del crimine in prodotti di mercato, da vendere sulle bancarelle del capitalismo sfrenato, come si trattasse di libri gialli o noir a cui aggiungere sempre l’ultimo capitolo, quello più avvincente, più inaspettato, quello che fa impennare le vendite. Questo neo-feticismo delle merci di marxiana memoria in salsa giudiziaria toglie ogni funzione al processo vero, quello da cui trae origine, si alimenta e che trasfigura poi in un fumetto allegorico.
Se Virginia Raggi spiega, è inutile che assuma un avvocato, decida una strategia processuale, prepari memorie difensive o liste testimoniali. E’ tutto inutile. Perché la pop justice macella e tritura il processo, rendendolo un nulla non appena si impossessa della vicenda e ne muta i caratteri tipici. Non è giustizia mediatica, tutt’altro: quella consisteva nell’utilizzo della “pubblicità giudiziaria” per supportare un certo esito processuale o investigativo. Con la pop justice il delitto, come il sospettato e la funzione giudiziaria, divengono un fumetto da vendere, uno spettacolo da rappresentare. Una sorta di cabaret sui valori etici. La giustizia è annullata in ogni suo valore: i protagonisti della vicenda giudiziaria (magistrati e avvocati) sono utili solamente se rappresentano dei soggetti serventi alla sua trasformazione teatrale.
Chi chiede le dimissioni, perché individua la responsabilità politica in qualcosa di diverso dalla responsabilità giudiziaria, si fa strumento della deriva neo-marxiana della trasformazione del crimine in una merce. Mai, neppure Marx, avrebbe pensato che il feticismo delle merci, carattere tipico del capitalismo, riuscisse addirittura a rendere prodotto i valori ed i contro-valori della società: il male (il crimine) ed il bene (la giustizia).
Virginia Raggi deve decidere se certificare la morte del valore, anche sociale, del processo. Se spiega in pubblico ciò che dovrebbe essere oggetto di analisi meditata e riservata con gli avvocati ed i magistrati, forse mantiene la carica di sindaco di Roma, ma statuisce la morte del processo, dimettendo il Procuratore, come i suoi avvocati. Ed è il trionfo della pop justice. Il giorno in cui sarà chiamata in giudizio si troverà completamente alienata dalla vicenda processuale, perché la nuova e ben più decisiva “nuova giustizia” avrà fatto il suo corso.
Il processo vive di storicità: la sua doppia funzione, retributiva verso il reo, ed educativa verso la collettività, hanno ancora senso se sono legate in rapporto tra loro. Se il reo sente la responsabilità giudiziaria come “contemporanea” alla decisione e la collettività coglie l’insegnamento qualora, a sua volta, la decisione non sia già stata “metabolizzata” in altri e diversi momenti. Il processo classico non è un dogma e neppure un oggetto sacro da tutelare anche davanti al mutamento radicale della società e del suo linguaggio. Il filosofo Heidegger diceva che il linguaggio è la casa dell’essere e dunque il linguaggio è la vera genetica dell’uomo, il suo Dna individuale e sociale.
Se così è, è indubbio che il processo penale segna il passo dinnanzi alla pop justice. Grillo, da grande ed impareggiabile uomo di spettacolo, ha capito che il capitalismo ha trasformato la giustizia in merce e così lo spettacolo giudiziario ha creato le nuove regole del processo penale.