Scuola

Bocciature alle elementari, cara ministra i bambini non sono numeri

“Non bocciare. A quelli che sembrano cretini, dare la scuola a tempo pieno. Agli svogliati, basta dare loro uno scopo”. Sono passati cinquant’anni da quando don Lorenzo Milani scrissea queste tre idee rivoluzionarie per la scuola in “Lettera ad una professoressa”, ma al ministero dell’Istruzione non sono riusciti ancora a comprendere il valore di queste parole. Anzi.

Basta cambiare ministra per fare ulteriori passi indietro. Per mesi Stefania Giannini insieme alla responsabile nazionale Pd per la scuola, Francesca Puglisi, ci avevano annunciato con tanto di enfasi che non si sarebbe più potuto bocciare alle “elementari”. La bozza dei decreti delegati in merito alla valutazione era già pronta con l’eliminazione della bocciatura, ma è bastato cambiare ministra – dalla Giannini alla Fedeli – per tornare indietro e reinserire all’articolo 3 del provvedimento un comma che era già nella legge 169 del 2008: “Nella primaria, i docenti della classe in sede di scrutinio con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione”.

Qualche domanda: qual è la ratio che ha spinto Valeria Fedeli a ritornare allo status quo, a non cambiare nulla? Quanti sono questi casi eccezionali? E soprattutto la ministra li conosce direttamente? Ha esaminato la casistica dei bocciati alla primaria?

Proviamo a farlo noi con gli strumenti che abbiamo, sicuramente meno potenti di quelli in possesso della titolare dell’istruzione.
A leggere l’articolo 3 dello schema di decreto legislativo sulle norme di valutazione verrebbe da pensare che si tratta di rari casi, magari qualche centinaio e invece nell’anno scolastico 2015/2016 sono stati respinti 11.071 bambini; l’anno precedente ancora di più, 11.866.

Facciamo un passo in più: chi sono i bocciati? In questo caso non ho in mano dati statistici di cui, si spera, dispone il ministero, ma mi permetto di usare l’esperienza maturata tra i banchi e quella proveniente dall’incontro con molti dirigenti che lavorano nelle scuole delle periferie delle città italiane. I “respinti” dalla scuola pubblica non sono i figli della collega professoressa; non sono nemmeno i figli della ministra o quelli del dirigente, del giornalista o del bibliotecario. Sono, invece, spesso i figli di un disoccupato, di una giovane coppia che vive a Scampia, allo Zen o a Baggio o di genitori che dal Meridione sono arrivati al Nord in cerca di lavoro. Sono bambini rom che le maestre non vogliono in classe e bambini figli di immigrati. Di nuovo torna utile ricordare quanto scriveva don Milani: “La scuola non è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Un ultimo ragionamento: una volta respinti, cosa fa la scuola? Nulla. Cambia qualche insegnante, ma la metodologia è la stessa. Ore in più non ce ne sono. Sussidi non ne parliamo. La scuola si è solo assunta la responsabilità di dire: “Io l’ho fermato. Ho fatto il possibile, ma la famiglia, ma il bambino, ma la situazione, ma…”. C’è sempre un “ma”. E’ il “ma” dell’indifferenza nei confronti dei diritti di un bambino. Perché bisogna ricordare che non stiamo parlando di casistiche, ma di bambini in carne e ossa.

Cara ministra Fedeli, ha mai visto gli occhi di un bambino di nove anni quando una maestra gli spiega che non sarà più con i suoi amici il prossimo anno perché lui è diverso dagli altri, perché lui non ce l’ha fatta? E’ mai andata in casa di uno di questi ragazzi a vedere le librerie inesistenti delle loro famiglie, le trasmissioni televisive che guardano? Ha mai visto piangere un papà egiziano davanti al maestro perché non sa più come aiutare suo figlio? Ha mai avuto a che fare con bambini che arrivano a scuola alle nove perché mamma non li ha svegliati?

La soluzione definitiva non c’è. E guai se si pensasse di averle. Chi insegna sa che, invece, vale la pena provare ogni strada per promuovere (non bocciare) le risorse anche di chi non ce la fa: “Richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar per pazzi”, scriveva ancora don Milani.

In un incontro informale con Valeria Fedeli a proposito di questo argomento mi disse: “Sì, don Milani aveva ragione, ma dobbiamo andare anche oltre”. Oltre dove? Ci provo. E allora mi vengono in mente le parole di Grazia Honegger Fresco che nella prefazione de “Il diritto del bambino al rispetto” di Janusz Korczak scriveva: “La scuola resta il luogo dove gran parte dei bambini arriva con fatica e scarso piacere ad acquisire il linguaggio scritto. Quanto poi a mortificare con voti e giudizi, con umiliazioni verbali, lezioni noiose ed esercizi obbligati la scuola resta maestra”.

E anche di fronte a chi in questi giorni dalla cattedra del suo ateneo, senza aver mai visto un bambino, denuncia il fatto che i nostri ragazzi scrivono e parlano male l’italiano, c’è solo da farsi una domanda: chi sono gli insegnanti dei nostri ragazzi?

Cara ministra, stavolta, siamo ancora in tempo. Non dia retta a un maestrino di campagna che le scrive da un blog, ma legga la Honegger, l’articolo di Salvo Intravaia su La Repubblica pubblicato nei giorni scorsi; l’intervento del maestro Franco Lorenzoni su Internazionale.it a proposito di bocciature.
E per una volta dimostri che anche i/le ministri/e ascoltano: togliete quell’articolo tre!