Martedì 7 febbraio inizierà il Festival di Sanremo 2017. Da diversi anni oramai la manifestazione gode di ottima salute e, secondo chi scrive, da sempre rappresenta la più importante icona pop italiana; chiunque sia salito su quel palco non ha mai semplicemente cantato una canzone, propria o altrui: tutti hanno sempre dovuto vedersela prima di tutto con il contesto. Lì la “verità artistica” dei brani sta sempre nel rapporto dialettico tra quel palco e l’espressione. Si fa presto a dire che le canzoni sono protagoniste, perché a Sanremo non lo sono quasi mai da sole.
A ben vedere, allora, questo tipo di brani sono molto lontani da quelli d’autore, perché i cantautori cantano la propria sensibilità al di là del contesto. Quest’anno però ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Tenco e, come già scritto, dalla nascita simbolica della canzone d’autore, proprio a Sanremo. Ma i cantautori cosa pensano del Festival? Abbiamo risposte chiare ed eloquenti.
Questo scollamento era stato già documentato in una serie di interviste fatte nel 1985 da Enzo Biagi e pubblicate da Rai Teche un anno fa. Lì De André, Dalla, Guccini, De Gregori e Pino Daniele (quindi buona parte dell’Olimpo) parlano proprio del Festival di Sanremo.
Se Dalla, in merito alle sue diverse partecipazioni, dichiara di avere un ricordo piacevole – e più in generale esalta l’aspetto di fenomeno sociale e l’evento mediatico da arena feroce –, De Gregori si limita a dire che secondo lui non rappresenta il meglio della canzone italiana. Lo stesso De Gregori, così come Pino Daniele, si dichiarano contrari alla gara, ma qui è De André a lasciare le dichiarazioni più lucide e acute: preciso e puntuale come spesso gli capitava di essere anche nelle interviste, descrive Sanremo come una competizione tra ugole, mentre “nel caso mio, dovrei andare a esprimere i miei sentimenti, o la tecnica attraverso la quale io riesco a esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione”.
Guccini invece si concentra proprio sulla diversità di genere di canzone: “Io non voglio Sanremo, e Sanremo non vuole me. Sono due mondi abbastanza diversi, due sistemi di comunicazione molto diversi”, ben cosciente però del fatto che ogni canzone, di qualunque genere, possa rappresentare “un fatto di costume”. Insomma: il mondo del Festival di Sanremo e quello della canzone d’autore sembrano davvero distanti anni luce, anche nelle idee dei protagonisti.
Bisogna sapere che da diversi mesi Rai Teche svolge un lavoro molto importante sul materiale d’annata del Festival. Registrazioni recuperate in molti casi all’estero, ci restituiscono esibizioni della fine degli anni Sessanta e dei Settanta. È stata per esempio “riesumata” la finale della tragica edizione del 1967, proprio quella di Luigi Tenco, anche se il cantautore partecipò nella serata precedente, mai recuperata.
Un vero cimelio per questo nostro discorso è l’esibizione di Vecchioni nel 1973, la prima delle due del professore, catalogata su Rai Play nella sezione “I favolosi”. Se nel 2011 il cantautore milanese ha sbaragliato ogni cosa e vinto tutto con “Chiamami ancora amore”, nel 1973 non andò esattamente così. Il brano si intitola “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, e parla del padre giocatore, personaggio quasi mitologico, guascone, un po’ maledetto nella poetica del cantautore; con lui comincia il passaggio di consegne generazionale che arriva all’ultimo disco del 2016, interamente dedicato alle canzoni per i figli. Lì a Sanremo però il messaggio non passò. Il mondo dell’autore non interessava ad alcuno. Quella canzone ha un rapporto dialettico con la poetica di chi l’ha scritta, mentre a Sanremo l’unico rapporto esclusivo permesso è con ciò che quel palco rappresenta. Andò male a tal punto che probabilmente la gente non capì nemmeno di cosa parlasse.