Il quarto libro dello scrittore milanese, classe ’78, esplora la solitudine e la crescita di Pietro, tra gli anni ’80 e i giorni nostri. La montagna come isolamento e rifugio, fuga solitaria lontana dal mondo. Difficile scucirsi di dosso l’armonico e cadenzato pulsare di questo romanzo. Attacchi e chiusure dei capitoli da manuale, digressioni che non naufragano mai in subordinate rigonfie di inutili dettagli ma che pulsano di un rapido e maturo ritmo descrittivo. Sottotraccia anche una velata analisi generazionale dei 40enni di oggi.
Che il dio della natura oltre i mille metri d’altitudine ci preservi Paolo Cognetti. E che Einaudi, l’editore che l’ha voluto a corte al quarto romanzo, non abbia timore di portarlo a testa alta al prossimo Strega. Le Otto Montagne è uno di quei libri che lascia letteralmente senza fiato. Di quei volumi che non vorresti che finissero mai, di quelli di cui si scrive che “sei rimasto alzato fino alle 4 del mattino per finirlo tutto senza interromperlo”. Vero. Tutto incredibilmente vero. L’ultimo romanzo di Cognetti ci fa percepire e respirare la montagna non come osservazione della natura, ma come moto esistenziale dell’anima. Un sentimento con cui probabilmente si nasce, una sensibilità che rimane nascosta dentro un generico noi, poi magari destinato ad essere provato da pochi. Ebbene questa sensazione Cognetti la mastica e la respira trasmettendola come pochi hanno saputo fare nella letteratura contemporanea. Avversione mai declamata ma comprensibile per seggiovie e piloni, contemplazione sommessa ma sempre in primo piano di cervi e pini cembri. E’ la montagna d’estate quella che interessa di più a Cognetti (perché non lo sia quella dell’inverno si scoprirà nel libro), quella che l’autore fa rivivere come luogo d’iniziazione alla vita e come spazio di isolamento dal mondo al protagonista del libro. Quel Pietro ancora ragazzino ad inizio anni ottanta, figlio di una coppia di veneti trasferitisi a Milano con l’amore per le Dolomiti e l’altare di nozze le Tre Cime di Lavaredo.
La famigliola prende una casetta in un comune montano da cui si vede il Monte Rosa. Pietro segue ogni estate il padre nelle ascese verso i 3mila, e intanto incontra e conosce anche il coetaneo montanaro contadino Bruno. Rapporto con il padre e amicizia col ragazzino del luogo si sviluppano parallelamente, infine si mescolano, transitando nel territorio della condivisione emotiva, che si conclude sempre lassù, dove la vegetazione finisce, e la pietraia e il ghiaccio dominano il mondo. In questo caso sarebbe davvero da sciamannati fare quello che per il cinema si definisce “spoiler”. Raccontare l’evolversi della trama di Le Otto Montagne sarebbe assassino. Noi dobbiamo solo attenerci all’indicare le peculiarità di stile e la forma di scrittura. Al massimo questa divisione in tre parti dello scritto che suggerisce l’evoluzione temporale, la crescita e la maturazione dei protagonisti con sempre le montagne sullo sfondo, anche quelle altissime nepalesi, l’uscita di scena di qualcuno e l’entrata in scena di qualcun altro. Fidanzate, bambini, casette da ricostruire. E ancora la montagna come luogo in cui nascondersi, in cui respirare e sopravvivere, in cui osservarsi e capirsi, in cui non c’è sempre un lieto fine, ma sempre una comprensione profonda che proviene spesso da una parola mancata o da un silenzio.
La maestria di Cognetti risiede in un magmatico, ribollente, pulitissimo linguaggio che si condensa nell’attacco di alcuni capitoletti (uno e cinque su tutti vanno a memoria), nelle chiusure secche e totalizzanti da narratore d’altri tempi, in digressioni che non naufragano mai in subordinate rigonfie di inutili dettagli, ma pulsano di un rapido e maturo ritmo descrittivo che avvince. Leggete a pagina 88 la scoperta della cartina paterna con le tre linee colorate che vanno e vengono, e capirete in poche righe sia cosa intendiamo per “ritmo descrittivo”, sia il senso dell’intero racconto. Infatti non ci si riesce a scucire mai di dosso l’armonico e cadenzato vibrare di questo romanzo. Le due linee narrative in cui si sviluppa la storia (il rapporto padre/figlio, e quello tra i due amici) che sembrano architravi apparentemente scricchiolanti, diventano invece nel tempo lungo del racconto solidissima roccia su cui rifondare pensiero e materialità del vivere. Ci permettiamo inoltre un azzardo interpretativo sociologico. In questa soggiacente, dolorosa e mai esibita, ricerca del padre da parte del protagonista, a Cognetti sfugge dapprima un’occhiata sulla quotidianità dell’oggi (a pagina 81 l’impietosa descrizione dei propri 31 anni differenti da quelli del padre è davvero potente come cronaca dell’attuale), poi un intero approfondimento sulla sopravvivenza materiale ed economica dell’amico diventato casaro, infine l’accenno sfuggente di quella Milano invivibile e avviluppata sui grattacieli dell’oggi. Cognetti, milanese, classe ’78, volontariamente o meno riesce a creare anche un sottotesto generazionale che finalmente senza indulgenza e senza troppo vittimismo presenta tutta l’indecisione e la paura dei 40enni di oggi. Non c’è utopia elitaria da conciliabolo di alternativi nella dimensione spaziale e nel moto del protagonista dal basso verso l’alto senza desiderio di ritorno, ma la semplice constatazione di un rifiuto spontaneo del mondo circostante per un Christopher McCandless fortunato però nel vedere brillare in cielo la costellazione degli affetti più cari che improvvisamente capisce di non aver mai perduto. E che non perderà mai.