Dieter Kosslick ha utilizzando il medesimo appellativo che il tycoon aveva riservato per la sua “nemica” Meryl Streep. In ogni caso, l’attitudine della kermesse non stupisce: da sempre il principale festival tedesco si è fatto portavoce di chi denuncia diritti violati, umani o civili che siano. Apertura con Django
Solo l’ultimo giorno ci potrà rivelare se la 67ma Berlinale sarà stata una buona edizione. Per ora la si può già ricordare come il primo grande evento cinematografico avverso alle politiche anti-democratiche di Donald Trump. Ad inaugurare il trend contrario al modus operandi del neo presidente USA è stato ufficialmente il direttore artistico Dieter Kosslick, che ha apostrofato Trump come “sovrastimato”, utilizzando così il medesimo appellativo che il tycoon aveva riservato per la sua “nemica” Meryl Streep (l’anno scorso presidente di giuria). In ogni caso, l’attitudine della kermesse berlinese non stupisce: da sempre il principale festival tedesco si è fatto portavoce di chi denuncia diritti violati, umani o civili che siano. Se fino a ieri l’avversario della Berlinale era – ad esempio – il regime di Ahmadinejad che impediva (e tuttora impedisce) a Jafar Panahi di uscire dal Paese ed esercitare la propria arte, per cui al regista fu dapprima assegnata una “poltrona vuota” da giurato invitato ma assente, e poi fu attribuito l’Orso d’oro per Taxi Teheran, inviato segretamente al festival via USB, oggi lo sfidante è paradossalmente colui che guida la democrazia più esemplare del pianeta.
Fra trumpismo e la sua antitesi, il cinema internazionale accorso a Berlino sente l’esigenza come “diritto e dovere” di esprimere il proprio status di libertà a 360°, tanto fra gli operatori festivalieri – agguerriti sono i soprattutto i produttori e distributori americani – quanto fra il pubblico, pronto ad affollare le proiezioni dei film in questo senso più simbolici, oltre che quelli oggettivamente belli almeno sulla carta.
Così accadrà stasera per l’apertura del festival e del suo concorso affidata a Django del parigino esordiente in regia Etienne Comar. Il racconto coincide con gli anni più “avventurosi” del geniale musicista autodidatta nonché gitano Django Reinhardt, ovvero fra il 1943 e il 1945 quando fu costretto a fuggire da Parigi dalla persecuzione nazista. Trovò rifugio in Svizzera, quando la Francia fu liberata tornò nella Capitale e fino alla sua morte avvenuta nel 1953 fu considerato non solo uno dei più straordinari chitarristi della storia ma anche un mito assoluto ed esemplare per le popolazioni Rom. Emblema della libertà a tutti i livelli – non a caso sia Corbucci che Tarantino decisero di chiamare così i propri eroi “rivendicatori” di legittima libertà – Django aderisce alla perfezione con il leitmovit di cui sopra, considerando che proprio la musica, e in particolare il jazz come nel suo caso, è stato ed è l’arte più tollerata dai regimi perché meno compresa, perché non esplicita. L’opera non offre spunti innovativi o particolarmente sorprendenti dal punto di vista cinematografico, ma sostiene con dignità la rappresentazione di un eroe certamente meno noto di quanto meriti.
Dopo il passaggio di Django, Berlinale 67 continuerà il proprio “inno a giustizia e libertà” con film di richiamo come Viceroy’s House della anglo-indiana Gurinder Chadha (la regista del cult Sognando Beckham), con l’ennesimo cine-adattamento del romanzo The Dinner del norvegese Herman Koch (già lo aveva fatto il nostro Ivano De Matteo con I nostri ragazzi) interpretato da Richard Gere, Laura Linney e Steve Coogan, con l’atteso nuovo film dell’autore di culto finlandese Aki Kaurismaki (The Other Side of Hope) in cui si racconta la vicenda di un rifugiato siriano approdato a Helsinki in parallelo a un disoccupato “local”. Ed altrettanta attesa c’è per il documentario The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov dal titolo autonomamente esplicativo così come il film del belga Philippe Van Leeuw, Insyriated, su una famiglia alle prese con la tragica situazione bellica siriana. Ed infine, a illuminare la tradizionale difesa dei diritti umani e civili praticata da Berlinale, spicca il documentario dell’haitiano Raoul Peck, I Am Not Your Negro, basato sull’ultimo testo incompleto di James Baldwin: il film è in corsa agli Oscar fra i documentari e darà certamente del filo da torcere al Fuocoammare del nostro Gianfranco Rosi.