È come con il peso dei neonati. “Niente paura, è solo il calo fisiologico”. Da che Sanremo è Sanremo, i diagnosti degli ascolti rassicurano: chi volesse interpretare i dati della seconda serata ricordino che l’effetto curiosità svanisce dopo il debutto, non tutti i teleutenti sono disposti a sorbirsi un’altra maratona festivaliera spalmati sul divano. Il 46,6 per cento certificato stamattina (10,4 milioni di spettatori) equivale a una flessione di quasi tre punti e mezzo rispetto al 2016, e siccome in Riviera scatta subito l’allarme (gli inserzionisti mugugnano quando il pubblico diminuisce), per i maggiorenti Rai meglio mettersi la maschera dei politici dopo le elezioni: abbiamo vinto tutti, vinciamo in ogni caso. Il che è sostanzialmente vero: con questo spiegamento di forze, il Festivalone della Nazione non sarà mai un flop. Però è già il momento in cui analisti e insider scrutano il cielo e fanno vaticini sul Sanremo che verrà: l’anno prossimo Conti non ci sarà (giura lui) e alcuni temono/sospettano un suo faraonico trasloco a Mediaset. Carlo smentisce, ma stai a vedere che la vera missione di Maria, con la benedizione di Piersilvio, è di portarsi il fiorentino alla corte del Biscione. In cambio di Bonolis, magari, mal sopportato un po’ da tutti ma dato in pole per il 2018.
A Sanremo, del resto, il mercato dei big è aperto tutto l’anno: decidesse di appendere gli scarpini al chiodo, un ingaggio non sarebbe scandaloso neppure per Totti, un comico naturale, che ha deliziato la platea con le sue gag, dal dubbio su Ilary a The Voice, a Cheope/Sciopè, fino al “piccione” di Povia che nascondeva una beffa criptata all’aquila della Lazio e alla pallonata in faccia (involontaria, certo) allo juventino Giletti. Intanto, dopo la partenza slow, la De Filippi continua a macinare gioco: al debutto era inciampata sui tacchi, barcollando senza mollare laddove altre si sarebbero spezzate la tibia. Alla fine stravincerà la partita, concedendo a Conti solo il gioco di rimessa: si porta a casa l’inopinato bacio di Robbie Williams (i social pullulano di battute su Costanzo), chiacchiera con Keanu Reeves come fosse al bar sulla Tiburtina, promette di “risentirsi al telefono” con l’impiegato stakanovista che lancia appelli in favore dei giovani precari mortificati dai dipendenti assenteisti.
Ecco, i giovani: ieri sera sono scesi in campo per la loro gara, lodevolmente anche stavolta ad inizio serata (a proposito, è un costante errore autoriale piazzare gli idoli degli adolescenti, dai Clean Bandit ai Biffy Clyro, in scaletta a notte fonda quando i ragazzini già dormono perché devono andare a scuola). Li buttano sotto i riflettori, a valutarli ci sono dieci milioni di italiani curiosi di capire che musica ci aspetta, nei prossimi anni. Loro sono convinti di avercela fatta o quasi, ormai sono approdati all’Ariston (o alle finali di un talent, il che è lo stesso). E invece lì comincia il loro martirio. Uno su mille vincerà, gli altri rischiano di dover ricominciare da capo, di deprimersi quando il riflettore si spegnerà e inghiottirà nel suo buco nero quei milioni di italiani. Questi giovani aspiranti big ci metteranno un po’ di tempo a capire che la loro carta se la sono già giocata, e che le case discografiche preferiscono puntare su quello del prossimo anno, che a costo zero fidelizzerà i ragazzini sui social, li farà innamorare e per qualche mese farà vendere la sua canzone. Perché investire a lungo termine su quello già visto e apprezzato, si dicono le multinazionali, spendendo soldi che non ci sono? Meglio fare i buttafuori, avanti un altro: caro nuovo artista ventenne, dacci una mano a ripianare i nostri asfittici bilanci e noi ti facciamo fare un primo dischettino, ma non avanzare pretese sul secondo perché qui non ce n’è. Bene che ti va diventi un Gabbani: se la tua canzone d’esordio viaggia bene in radio eccoti tra i “campioni” a riproporre il tuo fresco cliché, la smagata filastrocca su “un’ora d’aria di droga” allegrona e finto-battiatesca. O un Sergio Sylvestre, che ha una canzone (firmata Giorgia) che funzionerà con la sua tinteggiatura gospel, ma dal vivo il gigante di “Amici” deve imparare a controllare l’emissione. Se ti va così così rimedi uno strapuntino per due nella gara che conta, come Alice Paba (ex The Voice) che è sbarazzina ma non c’entra niente con il partner Nesli, così come nell’altro duetto posticcio si capisce che le voci di Giulia Luzi e Raige siano fatte di paste troppo diverse. Se poi ti va male finisci come Marianne Mirage, che tra gli emergenti aveva il pezzo più frizzante (targato Baustelle) e che è già tornata a casa. E che i giovani capiscano che anche a cinquant’anni rischi di confonderti sul palco, come succede a un emozionato Masini su un pezzo per lui complesso. E che per diventare una meraviglia come Paola Turci devi saper convivere con le cicatrici con la pelle e sull’anima. E che una come Giorgia, che a ogni nota ti scoperchia un universo inesplorato, nasce una volta ogni cent’anni. In Italia, almeno.