Dietro le tre carte ci sono questioni strategiche concrete: la necessità di rassicurare gli inserzionisti spennati per gli spot a peso d'oro (e su questo fronte Conti ha comunque garantito solidità, rispetto ai flop di altri direttori artistici) e poi di gestire la scadenza dell'onerosa convenzione tra la tv di Stato e il comune di Sanremo. Che scade il 31 dicembre prossimo, e che andrà rinnovata con un nuovo contratto triennale. Si balla su un piatto da 15 milioni e rotti. La città chiede più soldi, minacciando (come fa da tempo) di far traslocare il Festival
È il rito dei breakfast sanremesi: ogni mattino arrivano i tweet dei gradualissimi di Viale Mazzini, che con esaltazione da vecchia nomenklatura bulgara leggono gli ascolti della serata precedente come un “trionfo”, un “boom”, un “grande successo”. Quelli di stamani parlano di un 49,7 per cento di share, praticamente due punti in più rispetto al Conti II del 2016. Ma siccome con i numeri ti fanno il gioco delle tre carte come a Porta Portese, analizziamo il dato dei telespettatori. Ed ecco che il “trionfo” del 2017 nasconde lo stesso pattuglione di spettatori della scorsa edizione (10,4 milioni di italiani davanti alla tv) e addirittura una flessione di circa centomila teleutenti rispetto al 2015 (10,5 milioni con il 49,5 %). Tutto chiaro? La realtà è che – a parte i decessi e le assenze giustificate sul divano – il ciclo contiano garantisce sempre il medesimo zoccolo duro.
Li potremmo contare uno ad uno e scopriremmo che all’appello nominale gli aficionados del Festival non crescono e non salgono, almeno per quanto riguarda la serata cover, con il corollario che dunque la De Filippi non se n’è portato neppure uno da casa. Si dirà: e allora? Allora non è soltanto un giochino di propaganda di Raiuno, perché dietro le tre carte ci sono questioni strategiche concrete: la necessità di rassicurare gli inserzionisti spennati per gli spot a peso d’oro (e su questo fronte Conti ha comunque garantito solidità, rispetto ai flop di altri direttori artistici) e poi di gestire la scadenza dell’onerosa convenzione tra la tv di Stato e il comune di Sanremo. Che scade il 31 dicembre prossimo, e che andrà rinnovata con un nuovo contratto triennale. Si balla su un piatto da 15 milioni e rotti. La città chiede più soldi, minacciando (come fa da tempo) di far traslocare il Festival – e gli eventi ad esso collegati – su un’altra emittente.
Come Cielo di Sky, che trasmette in chiaro, o Mediaset che potrebbe ingaggiare Conti per una clamorosa riconferma da direttore sul campo, anche se con un’altra maglia. La Rai risponde: nessuno come noi può vantare il know how sull’evento, se il sindaco rompesse il patto andrebbe incontro a un disastro. Baiocchi in più non ne abbiamo, ma guardate che “trionfo”. Se poi insistete, noi trasferiamo tutto il carrozzone a Roma e trasmettiamo il Festival da casa, con grandi economie di scala. E per convincere l’amministrazione rivierasca chi manda la tv pubblica al tavolo delle trattative? Non il giovane direttore della rete ammiraglia, ma il suo mentore e predecessore, il “consulente” Gianka Leone: un esterno, di fatto, anche se nessuno come lui sa ridurre a più miti pretese gli interlocutori sanremesi. Segno, anche, di una debolezza intrinseca della gestione centrale di Campo Dall’Orto.
Svelata la magia dei numeri, resta da leggere la parte artistica. Anche quest’anno, Sanremo lascia trapelare la sua segreta ossessione sessuale. Con qualche caduta di tono: in mancanza di vallette, Caterina Balivo ha insultato Diletta Leotta, e rincarato la dose con un “frocio ma figo” per Ricky Martin. Mika ha sottolineato la vocazione gay-friendly dell’Ariston con il suo appello-arcobaleno “e a chi vuole discriminare il mondo gli togliamo la musica”, con buona pace di Trump. Luca e Paolo hanno precisato che “Conti ha invitato noi dopo Ferro, Mika e Martin. Noi siamo diversi: ci piace la patata“, e si rischiava di non uscire più dalla caserma.
Le cover? È la serata in cui la Rai spera di vincere facile, spingendo i concorrenti nel recinto della mera interpretazione di grandi classici. Chiaro che il paragone tra repertorio storico e nuovo sia impietoso, però con canzoni stellari puoi tentare di cavartela con il compitino, facendo attenzione a non romperti le ossa. Il podio è sensato: perché Ermal Meta ha fatto venire i brividi scalando con la doppia voce (struggente il falsetto) la montagna folk della modugnesca “Amara terra mia”; Paola Turci ha buttato benzina rock e grinta dentro la canna pop di “Un’emozione da poco”, e Marco Masini ha messo la musica in “Signor Tenente”, laddove Faletti gestiva una parte attoriale, recitativa. E peccato che Sergio e Soul System abbiano sfiorato il naufragio per problemi tecnici sul triangolo delle Bermude di quel palco insidioso, perché “Io vorrei la pelle nera” realmente black avrebbe celebrato in modo più ecumenico le nozze tra Amici e XFactor. Sorprende Elodie, così intimamente esposta da ricordare Shirley Bassey, nella resa della cocciantiana “Quando finisce un amore”. Moro rischia ma porta a casa la partita con “La leva calcistica”, mentre fa tenerezza (senza ironia) la nuova fragilità post-degenza di Al Bano: il vecchio leone non spinge la voce, ma “Pregherò” è nella sua storia. Peccato sia una cover italiana a metà, perché l’originale era di Ben E.King, così come “Ho difeso il mio amore” dei Nomadi scelto da un Samuel cool ma sottotono, apparteneva al catalogo dei Moody Blues. Stamattina tutti a dar pacche sulle spalle a Gigi D’Alessio per l’arrangiamento in tempi dispari de “L’immensità”, ma così facendo l’ha resa frenetica e ne ha diluita la drammaticità, con Don Backy che sembrava una colonna sonora di James Bond. Quanto alla gara, a casa le due coppie sperimentali Nesli-Paba e Raige Luzi, segno che certi innesti artificiosi funzionano poco e male, almeno a un primo ascolto. Stasera la finale dei giovani: occhio a Maldestro, sperando che venga accolta la sua aria da neo-Maudit quasi stonato (ma non ci indulga troppo sopra), e non la sua vicenda biografica, il figlio che ripudia il padre boss di Scampia. Siamo a Sanremo, non a Gomorra.