“Se torno al Festival perdo sicuro”. Come non dargli torto. Se Zucchero avesse presentato Partigiano Reggiano a Sanremo 2017 avrebbe rischiato, come ha spiegato lui “degli schiaffi”, e le forche caudine dell’eliminazione. Quelle, per dire, che cacciano fuori Gigi D’Alessio e tengono su Michele Bravi. Bizzarro testacoda professionale per il bluesman di Roncocesi elogiato da Ray Charles. Tornare al Festival di Sanremo dopo 31 anni (a parte un’esibizione con la figlia Irene). Un palco maligno per lui. Bocciato quattro volte in quattro anni. Senza appello. Come Vasco. Poi la storia gli darà ragione. Donne, che nel 1985 si classificò ventunesima su ventidue, fece innamorare Paul Young e divenne successo ben oltre Ventimiglia.
Dinamiche che il moloch Sanremo non può controllare e che, grazie a dio, non capisce. Allora Zucchero torna all’Ariston per canticchiarci qualche suo motivetto. Regala al palco dei fiori che gli sputò in faccia giusto qualche accordo, qualche confetto degli ultimi vent’anni di canzoni a manovella ripetute come un frenetico juke box da Mosca a Tokyo. Ci si arrende, poi una versione estesa di Partigiano reggiano e un duetto virtuale con Pavarotti su Miserere. Flashback, modello time lapse. “Vivo nell’anima del mondo/Perso nel vivere profondo/Miserere, misero me/Però brindo alla vita”. Anno 1992. Adelmo Fornaciari è già al suo “ultimo” album mostruoso. Il ponte levatoio del pop abbassato verso la lirica, l’assegno in bianco per il Pavarotti International, il primo cappello viola da mago Galbusera di New Orleans dopo tanti zuccotti alla Lucio Dalla. Nessuno oggi riflette più su niente, ma da quel dì il mondo del rock non sarà più lo stesso. Ed anche Zucchero, parafrasando Woody Allen, da quel giorno in fondo non si è sentito tanto bene. Spirito DiVino (1996) che arriva tre anni dopo il doloroso, immenso Miserere è il casello dell’autostrada del Sole, la porta girevole del casinò di musica “commerciale” dove di lì a breve anche chez Zucchero ogni asperità sonora si squaglierà tra le campionature, dove l’esclusività dell’acuto di un sax si confonderà con il brodo primordiale di mille untuosi violini. Chiaro, dal ’96 in avanti siamo di fronte allo Zucchero dei milioni della sazietà moltiplicati in trilioni. Successo, celebrità, quell’internazionalità mia avuta dal Liga, live infiniti e ripetuti col pilota automatico. Si chiama affermazione. Si legge, anche, dispersione.
Ricordarlo oggi con quei capelli un po’ unti sulla fronte, fascetta giro testa, gilet e camiciotti larghi, e quella movenza da ubriacone con il tronco rigido e oscillante alla Joe Cocker, è un lusso della memoria che tanti sbarbatelli non saprebbero neanche codificare. Il mare impetuoso al tramonto come With A Little Help From My Friends. Adelmo e Joe, Nuovo meraviglioso amico. Rispetto e Blue’s, album monumento. Canzone triste, No no non gli dire no, l’omaggio a Otis Redding con Solo, seduto su una panchina del porto, e Il sole all’improvviso con Gino Paoli. Con le mani (sbucci le cipolle), Pippo, Non ti sopporto più. Soul e blues all’italiana targati Michele Torpedine. Zucchero è quella roba lì. Un “elan vital” dentro al grigio e ripetitivo caseggiato della canzone popolare del belpaese. E badate bene: tutto fatto in casa, senza bisogno di un capitano di squadra a modellare abbigliamento e tonalità come nei talent. Bello ricordare l’Adelmo così quando Eric Clapton tesseva le lodi di Oro, incenso e birra. Dall’alto dei suoi 62 anni, il saggio contadino della bassa che voleva fare il veterinario regala a Sanremo qualche bagattella. Sarebbe troppo un Nice che dice (boh!) o Solo una sana e consapevole libidine . “Saluta i tuoi e bacia i miei”, cantava Adelmo sudato e in trance. “Ho dato più io a Sanremo o viceversa? Non saprei. Io ho dato le canzoni che ho scritto per Sanremo. Diciamo che siamo pari”. E così sia. Amen.