Società

Michele, quando andarsene è un gesto di protesta

Negli ultimi giorni la pubblicazione della lettera di Michele (la cui autenticità è stata confermata dalla madre) il trentenne suicida a Udine, e la commemorazione di Luigi Tenco a Sanremo hanno portato in primo piano il tema del suicidio, delle sue cause, di come capire quando e quanto le persone soffrono, degli strumenti utili per prevenirlo.

Ci si suicida per la disperazione, di aver perso una persona cara a cui non si riesce a sopravvivere, per delusione, sentimentale, scolastica, nell’amicizia. Ci si suicida per protesta, per rivalsa contro l’indifferenza e/o l’ingiustizia che si ritiene di aver subito, come Luigi Tenco tanti anni fa. Il suicidio diventa un’accusa contro le persone considerate responsabili.

Quando si pensa al suicidio salgono alla mente più facilmente scenari di disperazione, meno spesso di rabbia. Ma disperazione e rabbia sono due facce della stessa medaglia: prevale la disperazione quando le cause della propria sofferenza vengono attribuite a se stessi, prevale la rabbia quando le cause vengono attribuite agli altri, all’ambiente esterno, al mondo.

Quando una persona si toglie la vita si pensa che non sia stata capita, aiutata. Magari invece chi gli era vicino ha provato a farlo. Sappiamo che non è mai facile aiutare chi è così arrabbiato e ritiene che il problema sia così lontano da sé e vorrebbe solo che il mondo fosse diverso.

A volte chi è in difficoltà non chiede aiuto per vergogna, per la paura di essere giudicati deboli, inadeguati. Per Michele forse non era così, forse riteneva di non poter essere aiutato, per impossibilità/incapacità dell’ambiente che lui descrive in modo lucido e puntuale. Probabilmente il problema non era più quello concreto di trovare un lavoro, ma quello più astratto legato al senso di identità. Le continue frustrazioni potrebbero aver stimolato sentimenti di negatività interiore, profonda, che si è nutrita nel tempo dei no ricevuti, percepiti come rifiuti, dei mancati obiettivi, forse vissuti come fallimenti irrecuperabili, del senso di non appartenenza, di esclusione, di solitudine.

Attribuirsi la responsabilità, dei no, dei mancati obiettivi, della non appartenenza, darebbe luogo alla disperazione; attribuirla all’esterno, alla società, al mondo dà luogo alla rabbia che Michele ha espresso: contro se stesso, per evitare di rivolgerla contro gli altri. “Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno”.

La vicenda di Michele deve aver messo in allarme molte famiglie che hanno figli giovani, che cercano di costruire la loro strada nella vita e sono alle prese con le frustrazioni che il momento storico non risparmia. L’attenzione, l’ascolto, il dialogo, il sostegno e l’aiuto, per quanto possibile, a dare il giusto peso alle cose, a trovare l’equilibrio tra responsabilità personali e avversità, possono essere fattori protettivi.