Se chiedi a Gabbani il senso profondo della sua “scimmia nuda che balla“, ti risponderà che si tratta di un omaggio all’etologo Desmond Morris, che nel ’67 pubblicò il celebre saggio sul comportamento dell’uomo non dissimile da quello dei primati. La scimmia nuda siamo noi, come aveva ribadito in quegli stessi mesi Stanley Kubrick: ma portare all’Ariston pure il monolito di “2001 Odissea nello spazio” sarebbe stato francamente complicato.
Per movimentare il palco è bastato un coreografo di XFactor infilato dentro il costume da gorilla: e qui il vincitore di Sanremo ti spiega che la citazione non è per De André, bensì per il Daniele Silvestri di “Salirò”. Mettiamoci pure che “Occidentali’s Karma”, proponendo il suo irresistibile giochino a demolire le infatuazioni radical-chic verso la spiritualità orientale, con le sue derivazioni esoteriche e le pratiche per la salvezza del corpo e dell’anima, offre un economico biglietto di ritorno a quanti, dai Beatles in poi, avevano optato per il “passaggio in India” in cerca di un guru, un maharishi, un Maestro qualsiasi che predicasse pace & yoga e indicasse la via per il nirvana ai nevrotizzati figli del consumismo.
Che oggi sono schiavi, come sottolinea il testo paraculo e genialoide della canzone vincitrice del Festival, di quelle tastiere internettiane che sono “coca dei popoli/oppio dei poveri“. Ohibò, si dirà: tutta ‘sta roba dentro un motivetto pop? Sì, ma non ha trionfato solo per la sua astuta concezione. Ma perché da stamattina la fischiettano tutti, grandi e piccini, ti mette allegria, i piedi si risvegliano in due passettini mentre ti lavi la faccia, e ti viene voglia di cazzeggiare anche quando ti girano le scatole.
Le radio la rimbalzeranno ovunque, le sue frasi sono già slogan, titoli di riviste, #hashtag per i fancazzisti dei social. Gabbani ha una faccia da schiaffi dalla nascita, e non a caso scrive canzoni anche per Celentano. Giusto che sia finito così, il Festival di Carlo&Maria, con l’opera di “rottamazione” completata dalle giurie popolari (del televoto, soprattutto): dopo aver mandato dall’imbalsamatore Al Bano, Ron e Gigi D’Alessio, nella finale ha trasformato in un vaso di coccio l’imbarazzata e delusa Mannoia (che era venuta in Riviera per intascare una sorta di riconoscimento alla carriera senza fiutare l’imboscata del pubblico) messa in mezzo tra due vasi di ferro che appena l’anno scorso erano tra le Nuove Proposte.
E anche il terzo classificato, Ermal Meta, è qui per restare, non solo per la canzone sulla violenza domestica alle mogli e alle madri, ma anche per lo spessore autoriale, che ne fanno uno su cui la discografia italiana punterà sicuro. Quanto a Gabbani, la sua carriera è stata davvero da sliding doors: se non fosse stato ripescato dodici mesi fa dall’insurrezione della Sala Stampa, che lo aveva adottato in massa in semifinale quando i congegni per il voto si erano bloccati, oggi sarebbe forse tornato a cantare nei localini da chiacchiere e birra, e non dovrebbe prepararsi a rappresentare l’Italia all’Eurovision Song Contest, dove ha pure qualche chance di un piazzamento prestigioso.
Quanto a Sanremo, stamattina si inaugura l’anno zero. Dopo i maxiascolti della finale (58,4 per cento per più di 12 milioni di spettatori medi, miglior risultato dal 2002), ripulito l’Ariston dai coriandoli della festa, ora c’è seriamente da pensare al futuro. Ogni trionfo reca con sé la malinconia del “dopo”, una specie di “depressio post-coitalis” che segue l’amplesso. Conti si comporterà come il Mourinho del triplete interista e fuggirà nottetempo verso Cologno, malgrado le smentite e il contratto di esclusiva Rai fino al 2019?
O emigrerà – si fa per dire – alla tv cinese, pagato come nessuno mai? A Viale Mazzini provano a blindarlo coprendolo di onorificenze, come la direzione artistica dello Zecchino d’Oro. Basterà? E chi si prenderà la briga di organizzare e presentare la prossima, insidiosissima edizione del Festival? Chi ammicca alla De Filippi, madre padrona del 2017 sotto le mentite spoglie di “conconduttrice” e “sorella” di Conti, si sente salutare da un convinto “Ciaone!”. E allora chi? Riportarsi in casa il saccente Bonolis è un azzardo colossale: costi a parte, significherebbe restituire potere al suo agente Lucio Presta, che ancora pochi anni fa era il vero dominus sanremese. Se la sentono, Fabiano & Co. di restituirgli le chiavi del giocattolo preferito della tv pubblica? È davvero così presto per pensarci? O traccheggeranno fino ad aprile-maggio per blandire di nuovo il fiorentino verso un Conti Quater?
E se nel frattempo il quadro politico-aziendale dovesse cambiare ancora e il presentatore gigliato non fosse più protetto dai suoi “sponsor”? Il problema è l’alternativa: Amadeus appare ancora fiacco, nel ruolo di sostituto, ma altri non ce ne sono. A meno di non convincere Fiorello, come si tenta di fare da anni, ma quello è una faina, gioca con le edicole e i telefonini però se gli chiedi di assicurare l’audience finge crisi di panico. Cattelan? Potrebbe forse essere la soluzione migliore, in vista di un completo ringiovanimento del Festival, ma chissà se Sky lascerà andar via il suo campione. Interrogativi ansiogeni, dalle parti di Raiuno. Che per qualche ora si gode il bottino, ripercorrendo con la mente i momenti topici della finale: la telecamera a mano che colpisce sul mento Alessio Bernabei a metà della canzone, la scala di Star Trek che non si apre per far passare Sergio, Rita Pavone che ancora surclassa tutti, la Cucciari che ricorda Regeni e straccia il titolo di Libero al grido di “Je suis patata bollente”, Conti che invita gli esclusi Amara e Vallesi a cantare il pezzo sulla pace (ma se era così bello perché lo aveva scartato dalla gara in favore di cose più dimenticabili?) per introdurre il marchettone sulle forze armate con la Pinotti. E via andare. Come direbbe Gabbani, “comunque vada Panta Rei“.