Nabil Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, trascorrerà in carcere il sesto anniversario della rivolta di San Valentino.
Il 14 febbraio 2011, nella rotonda della Perla della capitale Manama, si svolsero le prime manifestazioni per chiedere, anche nella piccola isola del Golfo Persico governata dalla famiglia reale al-Khalifa, diritti, libertà e fine delle discriminazioni nei confronti della maggioranza sciita.
Una rivolta che la propaganda saudita da subito etichettò come ispirata dall’Iran e che i protagonisti continuano a celebrare come non settaria, ma “di popolo“. Uomini e donne, tanti giovani, attivisti per i diritti umani, insegnanti, sindacalisti, medici, giornalisti, persino moltissimi sportivi sono scesi in strada in questi anni.
L’Arabia Saudita intervenne militarmente, già nella primavera del 2011. Ci furono decine di morti. Silenzio, allora e ora, da parte del governo statunitense e di quello britannico, i principali alleati del Bahrein.
Seguirono processi con condanne all’ergastolo – tra cui quella di Abdulhadi al-Khawaja, il più noto difensore dei diritti umani – torture, assalti alle manifestazioni pacifiche con uno smodato uso di gas lacrimogeni, condanne a morte (tre delle quali eseguite all’inizio di quest’anno, non succedeva dal 2010) e provvedimenti odiosi, come la revoca della cittadinanza (solo nel 2016, a 80 persone) o il divieto di recarsi all’estero.
Lo scorso anno almeno 30 difensori dei diritti umani e altre persone che avevano espresso critiche contro il governo non hanno potuto viaggiare all’estero, anche per partecipare alle sessioni del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Con la condanna all’ergastolo di Abdulhadi al-Khawaja, la direzione del movimento per i diritti umani è passata alle sue figlie, Mariam e Zainab; poi, costrette entrambe all’esilio, a Nabil Rajab.
Rajab è in carcere dallo scorso giugno, con una serie di accuse che potrebbero costargli anche 15 anni di carcere: si va dall’offesa alle istituzioni e a stati amici (per aver denunciato le torture nelle carceri, i crimini di guerra sauditi in Yemen e la collusione tra apparati di sicurezza bahreiniti e Stato islamico) alla diffusione di notizie e voci false allo scopo di screditare lo stato”, attraverso il suo profilo Twitter e dichiarazioni e interviste pubblicate sul New York Times e su Le Monde.
La prossima udienza è fissata per il 21 febbraio.