L'analisi finale - Molte cose sono andate bene e hanno funzionato, molte altre no, o addirittura non ci sono state affatto. A cominciare dal lavoro di scrittura autoriale. Ci si è affidati, molto più pigramente, alla potenza di fuoco dei due conduttori, affidando al loro innegabile appeal televisivo le sorti del festival
Si può analizzare criticamente un Festival di Sanremo che ha sbancato l’Auditel e che ha ottenuto risultati più unici che rari nel panorama televisivo attuale? Non solo si può, ma si deve. Perché dal punto di vista della struttura televisiva, il Festival di Carlo Conti e Maria De Filippi è stato tutt’altro che indimenticabile.
Molte cose sono andate bene e hanno funzionato, molte altre no, o addirittura non ci sono state affatto. A cominciare dal lavoro di scrittura autoriale, visto che è totalmente mancato il guizzo, il colpo di genio, i siparietti sapidi tra conduttori, persino un fil rouge narrativo che tenesse tutto quanto insieme. Ci si è affidati, molto più pigramente, alla potenza di fuoco dei due conduttori, affidando al loro innegabile appeal televisivo le sorti della baracca.
Alla fine è andata bene, dunque bravi tutti. Ma quando i risultati di ascolto e share sono così alti, si rischia di chiudere tutto con un’analisi superficiale, che sottolinei giustamente i numeri ma dimentichi colpevolmente i contenuti.
Carlo Conti ha giocato di sottrazione, ma non è una novità. È un bravissimo smistatore televisivo, un crooner confidenziale che non sbaglia una virgola, un tramviere esperto che porta il mezzo a destinazione in orario e senza sussulti. Chi dice che è stato messo in ombra da Maria De Filippi ha ragione solo a metà e forse non conosce bene il modo di condurre di Conti. È ovvio che se sul palco c’è la dominatrice assoluta del piccolo schermo, il rischio è quello di sparire, di essere eclissato. Ma non si è trattato di un incidente di percorso o di una conseguenza subita suo malgrado.
Conti, il cui egocentrismo è paradossalmente fondato sull’esserci senza apparire troppo, ha fatto una scelta precisa: per uscire da trionfatore dal terzo Festival di Sanremo consecutivo doveva affidarsi alla migliore (non parliamo di qualità dei programmi della De Filippi ma di incontrovertibile efficacia televisiva), anche a costo di fare mille passi indietro. Li ha fatti, si è visto, ma è stato un sacrificio per un bene superiore. Il suo, beninteso, visto che nessuno può esibire i suoi risultati negli ultimi lustri sanremesi: confermarsi dopo il primo è già difficile, chiudere un triennio in crescendo è pressoché impossibile. Lui ci è riuscito, dunque tanto di cappello, e pur di farcela si è fatto concavo e convesso.
Maria De Filippi è uscita per la prima volta dalla sua comfort zone fatta di silenzi, lunghe sedute sui gradini, programmi costruiti attorno al suo modo originale di fare tv. Per metà della prima serata del Festival è stata imballata, ingessata, lenta e impacciata. Poi ha capito che poteva farcela anche senza snaturare la propria essenza e si è rilassata, inanellando altre quattro serate in crescendo. Esperienza positiva, la sua, perché molti credevano che Sanremo non fosse roba per lei.
Ma televisivamente questo Festival è stato noioso, ammettiamolo senza il timore di sembrare eretici nel coro unanime di lodi sperticate. Colpa di una scrittura assente, dicevamo, ma anche della cifra contiana. Lo scorso anno c’era Virginia Raffaele a dare un po’ di brio, quest’anno il pur bravo Crozza non poteva incidere più di tanto perché i tempi della sua presenza erano striminziti e poi ha deciso di collegarsi in remoto, evitando per 4 sere su 5 lo stress dell’Ariston.
E le storie di eroi del quotidiano raccontate magistralmente dalla De Filippi (è il suo mestiere e nessuno è bravo come lei in questo) troppe volte sono diventate stucchevoli e buoniste (questo invece è un chiaro tratto contiano). Tra levatrici da record, nonni eroi, divise supereroi, inviti a figliare come conigli e via così, sembrava di essere in pieno Ventennio, con un’impronta patriottarda che a tratti risultava indigesta. Mancava solo la battaglia del grano con Conti a petto nudo o l’oro alla Patria con la De Filippi a requisire le fedi nuziali del pubblico in sala.
Non è stato un Festival ragionato e scritto come quelli di Fazio o Bonolis, ma è stato un Festival efficace. Non si può rimproverare quasi nulla ai conduttori, se non la mancanza di coraggio. Hanno scelto la via del minimo sforzo per una massima resa e i risultati hanno dato ragione a loro. Il prossimo anno, quando qualche malcapitato verrà giocoforza chiamato a confrontarsi con questi numeri monstre, la via da seguire sarà di tutt’altro genere.
Per evitare confronti e tentare di ingolosire lo spettatore, ci si dovrà rifugiare proprio in un Sanremo raccontato, ragionato, narrativo e non didascalico. Ecco perché Bonolis sembra l’unica scelta possibile tra i conduttori classici. Oppure, se proprio si deciderà di sparigliare, ci si affiderà a un non-conduttore, che non avrebbe addosso l’ansia del confronto con la coppia di cyborg Conti-De Filippi, trionfatori senza pathos di questo Festival dai grandi numeri.