La Penisola conta oltre 4.700 cave attive e circa 14mila abbandonate. Dal ‘Rapporto Cave’ di Legambiente emergono incertezze sulle regole e un forte squilibrio tra quanto guadagnano i cavatori e i canoni di concessione. La sfida è ridurre l'impatto sul paesaggio e percorre la strada del riciclo: "Non è utopia pensare di avere più imprese e occupati"
In Italia si continua a scavare troppo e con impatti devastanti sull’ambiente. Dalle Alpi Apuane alle colline di Brescia, da Trapani a Trani. Malgrado la crisi, la Penisola conta oltre 4.700 cave attive e circa 14mila abbandonate. I canoni di concessione sono irrisori, rispetto a un fatturato da 3 miliardi di euro l’anno. In Valle D’Aosta, Basilicata e Sardegna si estrae gratis. Tant’è che nonostante il boom di export nei materiali, c’è sempre meno lavoro nel settore. La parola d’ordine è riciclo. Eppure in Italia la strada è ancora molto lunga, nonostante la spinta delle direttive europee.
È quanto emerge dal ‘Rapporto Cave’ di Legambiente, che dal 2009 effettua un monitoraggio delle attività estrattive. La sfida è quella di ridurre il prelievo di materiale e l’impatto delle cave sul paesaggio, dare nuova vita a quelle dismesse e percorrere la strada del riciclo degli aggregati, come è stato fatto in molti Paesi europei e in alcuni territori italiani. “Occorre promuovere una profonda innovazione nel settore – spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – dove non è utopia pensare di avere più imprese e occupati nel settore, proprio puntando su tutela del territorio, riciclo dei materiali e un adeguamento dei canoni di concessione ai livelli degli altri Paesi europei”.
I numeri del settore – Alla crisi del settore edilizio che ha caratterizzato gli ultimi anni ha fatto seguito una riduzione del 20,6% del numero di cave attive rispetto al 2010. Ogni anno si estraggono 53 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia, materiali fondamentali nelle costruzioni, 22,1 milioni di metri cubi di calcare e oltre 5,8 milioni di metri cubi di pietre ornamentali. La Lombardia è la prima regione per quantità cavata di sabbia e ghiaia, con 19,5 milioni di metri cubi estratto. Seguono Puglia (con oltre 7 milioni), Piemonte (4,8 milioni), Veneto (4,1) ed Emilia-Romagna con circa 4 milioni circa. Per quanto riguarda le pietre ornamentali, le maggiori aree di prelievo sono Sicilia, provincia autonomia di Trento, Lazio e Toscana che insieme costituiscono il 53,4% del totale nazionale estratto. Le Regioni che invece cavano più calcare sono Molise, Lazio, Campania, Umbria, Toscana e Lombardia che singolarmente superano la quota di 1,5 milioni di metri cubi.
Le regole a macchia di leopardo: 9 regioni senza piano – “In nove regioni italiane – rileva il rapporto – non sono in vigore piani cava e le regole risultano quasi ovunque inadeguate a garantire tutela e recupero delle aree”. Non c’è un piano in Veneto, Abruzzo, Molise, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Calabria, nella provincia di Bolzano, in Basilicata e in Piemonte (dove sono previsti piani provinciali), mentre nella maggior parte delle regioni sono inadeguati i vincoli di tutela e mancano obblighi di recupero contestuale delle aree. Per Legambiente “l’assenza dei piani è particolarmente preoccupante, perché si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede l’autorizzazione in Regioni dove è forte il controllo da parte della criminalità organizzata”.
Nessun equilibrio tra fatturato e canoni – A questa incertezza sulle regole, si aggiunge un altro problema. Il forte squilibrio tra quanto guadagnano i cavatori dalla vendita di inerti e pietre ornamentali e i canoni di concessione irrisori. In media nelle regioni italiane si paga il 2,3% del prezzo di vendita di sabbia e ghiaia: parliamo di 27,4 milioni a fronte di 1.051 milioni di volume d’affari. Ancora maggiori i guadagni per i materiali lapidei di pregio, dove sono in forte crescita il prelievo e l’esportazione (2 miliardi di euro nel 2015). In diverse regioni addirittura si cava gratis. “Succede in Valle d’Aosta, Basilicata, Sardegna – racconta Legambiente – ma anche Lazio e Puglia dove si chiedono pochi centesimi di euro per cavare inerti”. C’è da sottolineare che l’ultimo intervento normativo dello Stato nel settore è il regio decreto di Vittorio Emanuele III del 1927. “È evidente che senza un controllo dell’operato delle Regioni – sottolinea l’associazione – la situazione è insostenibile sia in termini di tutela del territorio, che di controllo della legalità e di riduzione del prelievo da cava”. Ancor più perché le direttive europee prevedono che entro il 2020 il recupero dei materiali inerti dovrà raggiungere quota 70%.
La cattiva e la buona pratica – Nel Rapporto sono raccolte non solo storie da tutta Italia, che raccontano l’impatto sul paesaggio italiano, ma anche buone pratiche realizzate nella Penisola ed esempi virtuosi riguardanti la gestione dell’attività estrattiva e il recupero delle cave dismesse per creare parchi e ospitare attività turistiche, ma anche di cantieri dove si sono usati materiali provenienti dal riciclo invece che sabbia e ghiaia. Come è accaduto per alcune autostrade, ma anche per lo stadio della Juventus, nella cui realizzazione sono stati riutilizzati molti dei materiali che lo smantellamento del vecchio impianto ha prodotto. “La sfida per i materiali di pregio – spiega il rapporto – è di mantenere in Italia le lavorazioni, per le quali il tasso di occupazione è più alto”. Per gli inerti, invece, l’obiettivo è spingere la filiera del riciclo, che garantisce almeno il 30% di occupati in più a parità di produzione. Per Legambiente sono tre gli step per rilanciare il settore. Il primo è quello di “rafforzare tutela del territorio e legalità attraverso una legge quadro nazionale che stabilisca le aree in cui l’attività di cava è vietata e obblighi il recupero contestuale delle aree e la valutazione di impatto ambientale”. Secondo punto: stabilire un canone minimo nazionale per le concessioni di cava. “Se fossero applicati i canoni in vigore nel Regno Unito (20% del valore di mercato) – ricorda, infatti, Legambiente – si recupererebbero 545 milioni di euro all’anno di incassi per le Regioni”. Dal primo ‘Rapporto Cave’ del 2009 si può stimare che siano state sottratti canoni per oltre 3,5 miliardi di euro. La terza strada da attuare è quella di “ridurre il prelievo da cava attraverso il recupero degli inerti provenienti dall’edilizia, per andare nella direzione prevista dalle direttive europee”.