Una nuova nave, un nuovo porto e un nuovo migrante per una nuova, folgorante, denuncia sociale tradotta in poesia cinematografica. Dopo la Francia di Le Havre, Aki Kaurismäki torna a Helsinki, donde raccontare con il proprio inconfondibile stile quell’umanità raminga che sopravvive al cinismo contemporaneo. L’eroe di The other side of Hope compare nella notte, emergendo dal sottosuolo con il volto coperto di sabbia: sembra un uomo sbarcato dalla luna. Il buio lo tinge di un azzurro quasi fosforescente, l’immancabile colore nell’acceso cromatismo che distingue l’opera del grande autore finlandese.
Per la prima volta in concorso alla Berlinale (aveva partecipato ad altre nove edizioni ma sempre nella sezione Forum), Kaurismäki è accolto in trionfo, tanto da immaginare che la sua nuova bellissima pellicola possa mirare diritta all’Orso d’oro. Secondo capitolo di un’ipotetica trilogia dei porti o – meglio ancora – dei rifugiati (“mi costringo a fare trilogie perché sono pigro. Spero che il film conclusivo sia una commedia brillante”) The other side of Hope mette in scena due protagonisti: da una parte un giovane rifugiato dalla Siria (il bravissimo attore siriano realmente rifugiato politico, Sherwan Haji) che sbarca a Helskinki dove subito chiede asilo politico attraversando la classica burocrazia, dall’altra un anziano finlandese (Sakari Kuosmanen) che lascia moglie e lavoro per aprire un ristorante. I due naturalmente s’incontrano, si sostengono di reciproca amicizia in vicissitudini fra il tragico e il comico, mostrando – ancora una volta – che l’uguaglianza fra esseri umani è possibile. Di contorno nella fiaba la consueta cornice surreale: vetusti nonché stralunati chitarristi locali tra il folk e il rock, un cucciolo della medesima razza dell’adorata Laika di cui probabilmente è l’erede, un cameo della magnifica attrice feticcio Kati Outinen, un manipolo di personaggi balordi come staff del ristorante del protagonista. Tutti e ciascuno trattati con il rispetto che meritano, dunque sempre al centro dell’inquadratura.
D’altra parte per Aki Kaurismäki, il cui pregio è di fare sempre lo stesso film nel costante riadattamento all’attualità, i principi di fratellanza, solidarietà e giustizia, oltre alla già citata uguaglianza, sono dei valori assoluti e imprescindibili, prima come uomo e in seguito come artista. In tal senso è naturale che questo nuovo tassello della sua ricca cinematografia altro non sia che una conferma di coerenza, a maggior ragione valida nell’odierno Occidente sempre più ostile verso i più vulnerabili. Non è un caso che il regista 60enne voglia “cambiare il mondo” col suo cinema, anche se ironicamente dichiara “per il momento mi limito all’Europa partendo dalla Finlandia, poi vedremo, magari mi sposto in Asia”. The Refugee doveva essere il titolo originario di questo film, divenuto poi The Other side of Hope. “È chiaro che io considero il maltrattamento dei migranti e rifugiati un crimine contro l’umanità – si indigna Kaurismäki. Nei secoli passati l’Europa era il cuore della cultura dell’accoglienza, oggi è un covo di criminali che stanno distruggendo le democrazie. Non illudiamoci più di essere il centro del mondo: la nostra cultura vale un millimetro di polvere sul Pianeta. Oggi mi pare che solo Angela Merkel, fra i potenti, si stia preoccupando dei migranti”.