L’opera seconda di Barry Jenkins è il vero oggetto alieno di questa stagione hollywoodiana che chiuderà i battenti il prossimo 26 febbraio 2017 proprio con l’assegnazione dei premi dell’Academy, dove Moonlight si presenta con ben otto nomination, tra cui quella per il miglior film
Se c’è un film che può frenare l’oramai inarrestabile corsa di La La Land alla Notte degli Oscar 2017 si chiama Moonlight. L’opera seconda di Barry Jenkins è il vero oggetto alieno di questa stagione hollywoodiana che chiuderà i battenti il prossimo 26 febbraio 2017 proprio con l’assegnazione dei premi dell’Academy, dove Moonlight si presenta con ben otto nomination, tra cui quella per il miglior film. Sarà un parere molto radical chic, ma giusto per citare uno dei tanti giudizi positivi della critica, A.O.Scott sul New York Times titola così il suo breve e denso intervento sul film: “Moonlight: Is This the Year’s Best Movie?”. Domanda ben poco retorica, perché l’opera produttivamente indipendente (i dollari sono della A24, quelli di Room per intenderci) di Jenkins sembra un lavoro apparentemente orientato su uno spaccato sociologico di periferia, quando invece con lo scorrere dei minuti esplode in un pulsante e ribelle ritratto intimista di crescita e affermazione di sé, per un protagonista nero, Chiron, che attraversa tre fasi della vita (infanzia, adolescenza, età adulta) mostrando, dapprima in controluce poi sempre più in primo piano, la contrastante e faticosa normalità tra omosessualità e machismo criminale.
Se Moonlight fosse soltanto una piana e piallata esposizione visiva di una tematica seppur sensibile e delicata non staremmo qui a parlarne. Perché ciò che lo contraddistingue maggiormente è proprio l’approccio stilistico, lo sguardo di Jenkins che obbliga lo spettatore ad una visione ravvicinata, immersiva, totalizzante rispetto al soggetto protagonista, in continuo divenire, una crescita anagrafico-politica da Little a Chiron a Black, che prende il ritmo di tre blocchi narrativi/capitoli che evolvono da una sperimentazione espressivo/cromatica che ricorda la contemporaneità psichedelica dei quadri di Kehinde Wiley; poi ad un robusto, angosciante e dolorosissimo teen movie; fino ad una più soffusa, classica, matura suddivisione di spazi, tempi e ritmo da campo e controcampo di una distensiva love story.
Chiron è il ragazzino magro, fragile e insicuro che vive nel quartiere periferico Liberty City di Miami, uno degli angoli più pericolosi d’America, con la madre tossica. Sarà lo spacciatore Juan (Mahershala Ali) a prendere casualmente Chiron sotto la sua ala protettrice. Non un’iniziazione al crimine ma una “normale” vita casalinga con lui e la fidanzata, una rallentata quotidianità fatta di pasti caldi e lenzuola pulite che mancavano al bimbo, e che gli permetteranno di distaccarsi dalla madre. La scuola pubblica dei 15 anni diventa poi un tormento fatto di bullismo e porte in faccia. Quando poi la passione per il compagno Kevin, un duro che però accetta le avances di Chiron, lo porta alla complicata coabitazione con il ruolo perenne di vittima, sarà proprio il protagonista a far saltare con violenza gli schemi della sua inferiorità psicofisica e sociale.
In un film in cui non appare nessun uomo o donna bianca, nessun alta carica istituzionale compresa la polizia che non sia di colore, nessun senso altro dove risiedono verità razziali di sessualità e d’identità che non siano quelle della strada, ecco che Moonlight assurge a film verità, tragico e sensuale, magmatico e fluente, come se fosse il racconto di un complesso insegnamento ad un bimbo, sulla sua tristezza e il suo intimo dolore d’isolamento (“A volte piango così tanto che mi sembra di diventare liquido”), su come fare a stare in piedi, camminare e correre. Un poema di volti sfiorati, sguardi impressi e mescolati con lampeggii di luce e guizzi di musica stridente – il metodo è quello “chopped and screwed” dell’hip hop – che infine come in un ellissi torna ad essere inevitabile e urgente documento di un’America lontanissima perfino dai pistolotti antirazzisti e antiTrump di oggi. Chiron, interpretato magistralmente da tre attori come Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes, è una traccia di umanità universale dell’uomo contemporaneo comprensibile da ogni latitudine, cultura e società possibile. Da Moonlight non si sfugge. L’Academy non potrà dimenticarlo così facilmente.