È la riflessione del gip di Roma Simonetta D'Alessandro che si può leggere nel decreto di sequestro di beni della famiglia Tulliani - per un valore di 5 milioni di euro - sulla genesi dei rapporti tra Gianfranco Fini e Francesco Corallo, arrestato lo scorso dicembre insieme all'ex deputato Amedeo Laboccetta.
“Sembra singolare che in un partito dall’accentuata connotazione gerarchica, il Segretario ignorasse l’esistenza delle vicende di un gruppo industriale che si preparava all’accesso, a livello nazionale, e all’esito di una gara bandita da un Governo di cui egli era parte, al lucrosissimo settore del gioco legale“. È la riflessione del gip di Roma Simonetta D’Alessandro che si può leggere nel decreto di sequestro di beni della famiglia Tulliani – per un valore di 5 milioni di euro – sulla genesi dei rapporti tra Gianfranco Fini e Francesco Corallo, il re delle slot arrestato lo scorso dicembre insieme all’ex deputato Amedeo Laboccetta. Rapporti che si sono riverberati sulla famiglia di Elisabetta Tulliani moglie dell’ex presidente della Camera indagato per riciclaggio nell’inchiesta sulla casa di Montecarlo. Anzi, secondo il giudice, i Tulliani divennero soci di Corallo perché l’imprenditore – il cui nome era comparso nell’inchiesta su prestiti facili della Bpm di Massimo Ponzellini – puntava in alto, a livello istituzionale. “Corallo crea in capo ad interlocutori che non conosceva se non per i loro rapporti con Fini e Laboccetta, i Tulliani, una cospicua disponibilità immobiliare e finanziare”.
Corallo alla festa di compleanno della figlia di Fini a Montecitorio
Il giudice, analizzando la richiesta della Procura di Roma, fissa alcuni punti che sembrano cozzare con le dichiarazioni dell’ex vicepremier sull’inconsapevolezza degli affari della compagna. Il primo è che fu proprio Fini a far entrare in contatto il dominus della concessionaria dei Monopoli di Stato per videopoker e slot machine e la famiglia Tulliani. Ed è il rapporto tra Fini e Corallo – indagato per un’evasione da centinaia di milioni e figlio di Gaetano, ritenuto il cassiere del clan Santapaola – che per il giudice è alla base del patrimonio dei Tulliani: quantificato in 7 milioni di euro. Una “contiguità” durata almeno fino al 2009 e che ha visto l’imprenditore partecipare anche al compleanno della prima figlia di Fini e Tulliani nell’appartamento privato dell’allora presidente della Camera dei deputati: “Un festeggiamento privato” cui “parteciparono pochi parenti, qualche personaggio politico, compagno di partito nonché Francesco Corallo e la sua compagna. A quel tempo – sottolinea il giudice riportando le affermazioni di Laboccetta – Giancarlo ed Elisabetta Tulliani avevano già beneficiato di molto denaro da Francesco Corallo, che aveva disposto, tramite Baetsen (director di una delle società offshore), il duplice acquisto dell’appartamento di Montecarlo di proprietà di Alleanza nazionale, di cui erano divenuti proprietari occulti”.
La vacanza ai Caraibi per 14 persone e Fini pagata dal re delle slot
E sarebbe proprio quel rapporto trai Tulliani e Fini ad aver spinto Corallo, “il titolare di un’impresa colossale”, a fare operazioni finanziarie e immobiliari assolutamente in perdita, tra cui l’acquisto della ormai famosa casa di Montecarlo, con i Tulliani, “una famiglia della piccolissima borghesia romana”. Molto prima però secondo il racconto messo a verbale da Laboccetta, Fini insieme ad altre 14 persone fu ospite di Corallo nel 2004: l’imprenditore pagò la vacanza nell’isola caraibica di Saint Martin a tutti. L’incontro con Fini portò fortuna a Corallo perché poi, su sollecitazione di Laboccetta, “Proietti Cosimi (ex braccio destro di Fini, ndr) era intervenuto presso il direttore dei Monopoli per revocare una diffida a Corallo nel 2005”. Un intervento che Laboccetta definì “un’intesa” tra Corallo e Fini. Due anni dopo lo stesso ex segretario di An “aveva chiesto a Labocetta che Corallo acquisisse un immobile di cui era intermediario Giancarlo Tulliani, che lo stesso Labocetta definisce fatiscente”. Quell’affare non si fece, ma andò in porto invece quello che riguardava i circa 70 metri quadri in Boulevard Princesse Charlotte 14.
L’imprenditore si attivò per diventare socio dei Tulliani
“Quale era l’interesse di Corallo a coltivare così intensamente i Tulliani” e a fare con loro “considerevoli affari?”. Il giudice risponde che è “riduttivo credere che la vicenda si sostanzi nell’acquisto della casa di Montecarlo”. La questione, piuttosto, “è molto più ampia” e “stupisce davvero che un imprenditore del calibro e delle dimensioni di Corallo si attivi senza risparmio di risorse, economiche, tecniche, finanziarie, per diventare socio dei Tulliani”. La chiave di lettura la offre nell’interrogatorio proprio Labocetta. E dopo tutte queste sollecitazioni”, prosegue il gip, Corallo si attiva, pagando la casa di Montecarlo ed eseguendo una serie di bonifici alle società off shore dei Tulliani. Circa due milioni che sarebbero serviti per consentire ai familiari di Fini, secondo la ricostruzione della procura, di acquistare un pacchetto azionario pari al 10% delle società dello stesso Corallo. La prova di tutto ciò, gli investigatori la trovano nel pc di Giancarlo Tulliani nella perquisizione di dicembre 2016. “Un affare inusitato – scrive il giudice – connotato da sproporzione tra le somme e il valore dell’acquisizione”. Insomma fu l’imprenditore a mettere mano al portafoglio perché la piccola famiglia borghese romana entrasse in affari con lui: “Ed è in sintesi Corallo che paga per consentire ai Tulliani – ritiene il giudice per le indagini preliminari – l’acquisizione di quota della sua impresa”.
Il progetto societario decade, ma nel 2009 Corallo fa un ulteriore bonifico di 2,4 milioni sul conto di Sergio Tulliani, “un impiegato dell’Enel in pensione non molto credibile come lobbysta”. Perché? Il giudice per le indagini preliminari avanza una spiegazione: il versamento è infatti successivo all’abbandono del progetto di società “ma antecedente al decreto 78/2009 che ha offerto cospicui vantaggi a Corallo, offrendogli la possibilità di offrire in pegno i diritti sulle Vtl ed ottenere un finanziamento per Atlantis/Bplus di 150 milioni“. Di tutto questo, sostengono gli inquirenti, i Tulliani “erano consapevoli”. Tanto che “quando Corallo esce di scena, svaniscono le società off shore e le movimentazioni transcontinentali” e iniziano “operazioni che lasciano tracce grossolane: il padre effettua bonifici alla figlia o al figlio, consente al figlio operazioni di reimpiego titoli, i due fratelli vendono l’alloggio di Montecarlo già provento di riciclaggio, ripartendosi i proventi, appena in tempo per ricadere in pieno regime di incriminazione per autoriciclaggio“. Ed ancora: “Le operazioni sono da persona fisica a persona fisica” e non si intravedono menti finanziarie raffinate; “i contegni, basici, rispondono a bisogni primari: la casa per sé la casa da affittare. Cessate le aspirazioni internazionali, si delinea la piccola delinquenza finanziaria routinier”.
Indagini faranno luce su impresa Corallo e addentellati istituzionali
A conti fatti, secondo gli inquirenti, il patrimonio della famiglia Tulliani, padre e i due figli, supera i sette milioni di euro, “e la contiguità con Corallo…capace di un danno all’Erario di centinaia e centinaia di milioni si è protratta a far data dal loro rapporto con l’on. Gianfranco Fini, prima Vice – Presidente del Consiglio dei Ministri, poi Presidente della Camera dei deputati (2007), fino al 2009. La vicenda trascende di molto – ragiona il giudice – il suo valore economico, assume rilievo nazionale – e non solo – posto che Corallo, rinviato a giudizio nel 2012 a Milano per associazione per delinquere, in relazione a un credito di 150.000.000,00 di euro elargitogli dalla Banca Popolare di Milano, è figlio di Gaetano Corallo, uomo di Nitta Santapaolo nella Sicilia occidentale, e già condannato – con Ilario Legnaro – per il tentativo di acquisizione del Casino’ di Saint Vincent”. L’imprenditore “ha negato assolutamente la sussistenza di rapporti con il padre e le indagini faranno luce – scrive il giudice – su quali antecedenti d’esperienza egli potesse contare per mettere in piedi – in circa tre mesi – un’impresa concessionaria di gioco legale, e organizzare intorno ai suoi profitti un riciclaggio internazionale e transcontinentale della durata di dodici anni. Ed anche – se ci sono stati – su quali addentellati istituzionali abbiano vanificato il controllo, qualunque genere di controllo sulla vicenda in parola, per dodici anni”.