La Procura di Milano, dopo il rigetto delle richieste di patteggiamento avanzate da Adriano, Fabio e Nicola Riva nell’ambito del procedimento con al centro il crac del gruppo che controllava l’Ilva di Taranto, avrebbe intenzione di procedere con la chiusura delle indagini, il deposito degli atti e la conseguente richiesta di rinvio a giudizio. Poi, davanti al gup in sede di udienza preliminare, le difese potrebbe provare ancora, con l’accordo dei pm, la strada del patteggiamento però con ritocchi sulle pene.
Ieri il gip di Milano, Maria Vicidomini, aveva respinto l’istanza in quanto le richieste “non possono essere accolte per assoluta incongruità delle pene concordate (…) a fronte dell’estrema gravità dei fatti contestati, costituiti (…) da plurimi reati di bancarotta fraudolenta caratterizzati da numerose distrazioni asseritamente realizzate attraverso le complesse operazioni”, ricostruite dalla Procura, “di importi rilevantissimi ai danni della società Riva Fire spa e Ilva spa”.
Il giudice non solo non ha ritenuto congrue le pene ma ha bocciato pure l’intesa, che l’ex premier Matteo Renzi alla fine di novembre aveva dato come conclusa e di lì a poco operativa, spiegando che in realtà è “una bozza di transazione” con cui i Riva lo scorso 2 dicembre hanno dato l’assenso a far rientrare in Italia il miliardo e 330 milioni di euro, in gran parte sequestrato in una delle indagini condotte dalla Gdf e congelato su un conto in Svizzera, per metterlo a disposizione della bonifica ambientale dello stabilimento tarantino. Una somma, questa, che avrebbero messo sul piatto nella convinzione di poter beneficiare di un atteggiamento più morbido nella definizione delle pene e della concessione delle attenuanti generiche, per il gip, invece, “non (…) applicabili”. In base all’intesa raggiunta tra le difese e i pm erano: 2 anni e mezzo per Adriano, tra i 4 e i 5 anni (in continuazione con una condanna già definitiva) per Fabio e circa 2 anni per Nicola.