L’Innocenti, passata alla storia per la produzione delle Lambrette e delle Mini, vantava un’importante presenza nella meccanica pesante. Nel 1973 il ramo d’azienda venne ceduto all’Iri e, in seguito alla fusione con la Sant’Eustacchio di Brescia, la Innse (acronimo per Innocenti-Sant’Eustacchio) divenne leader mondiale nel settore, impiegando 2000 persone. Durò fino agli anni Novanta quando, con la privatizzazione dell’Iri, iniziò il tracollo. Nel 1996 la fabbrica venne ceduta alla tedesca Mannesmann Demag Ag, una multinazionale concorrente che ridusse attività e personale – l’organico contava a quel punto trecento dipendenti tra operai e impiegati – fino alla messa in liquidazione.
Tre anni dopo, nel 1999, la Demag vendette l’azienda alla Sms Siemag, colosso tedesco della siderurgia, che solo un anno più tardi decise di disfarsene. La lotta operaia impose alla direzione aziendale di trovare un compratore per evitare la chiusura dello stabilimento, che alla fine venne rilevato dalla Manzoni Spa. Un’acquisizione agevolata che prevedeva sgravi contributivi e finanziari, oltre a tre anni di commesse assicurate. Nell’agosto 2002, tuttavia, esaurite commesse e agevolazioni, l’azienda venne puntualmente messa in liquidazione. Iniziò un periodo di amministrazione controllata che si chiuse nel 2006, quando l’imprenditore Silvano Genta rilevò l’Innse grazie alla Legge Prodi bis, al prezzo di un appartamento di media metratura. L’immenso capannone, il sofisticato parco macchine e i 53 operai specializzati superstiti vennero ceduti a una sola condizione: non procedere, per due anni, a licenziamenti collettivi.
Genta però non era un industriale, vendeva macchinari industriali usati. Dopo le rituali promesse di rilancio produttivo, allo scadere del secondo anno comunicò agli operai rimasti, con un telegramma, “l’esonero dalla prestazione lavorativa”. Fu l’inizio di una battaglia di più di un anno – fatta di picchetti e presidi ai cancelli per bloccare le operazioni di smontaggio, di intimidazioni da parte dell’azienda e sorveglianza assidua di polizia e guardie giurate – che culminò nell’agosto 2009 con la salita di quattro operai e un sindacalista sul carroponte interno al capannone. I cinque rimasero per una settimana a dodici metri d’altezza, con una temperatura superiore ai 45 gradi, senza dormire e quasi senza mangiare, costringendo istituzioni e media a interessarsi alle loro rivendicazioni.
Sostenuti da un nutrito presidio esterno di solidali, i cinque scesero solo quando azienda e istituzioni trovarono una soluzione soddisfacente: il Gruppo Camozzi si offriva di rilevare l’azienda e rilanciarla, sviluppando il mercato e procedendo a nuove assunzioni. Sembrava che l’agonia della Innse fosse terminata, ma la proprietà non fece mai partire il piano di rilancio e i dipendenti si ridussero a 29. L’attività fu mantenuta al minimo, fino a quando, a gennaio del 2016, il Gruppo Camozzi dichiarò lo stato di crisi, malgrado pochi mesi prima avesse chiesto i turni di notte per far fronte alle commesse, e mise gli operai in cassa integrazione straordinaria.
Il piano industriale presentato dall’azienda per procedere al risanamento chiedeva il prepensionamento obbligatorio degli operai con maggiore anzianità, un diverso uso di gran parte del capannone industriale e la rimozione di 22 delle 27 macchine. In cambio, la proprietà si diceva pronta a investire un milione di euro, acquistare due nuove macchine e assumere sette giovani operai, allungando di cinque anni, dal 2025 al 2030, l’impegno all’uso industriale dell’area.
Ricomincia la lotta, ma questa volta i 29 della Innse non sono sostenuti dalla Fiom, che firma una lettera di intenti e sottopone l’ipotesi di accordo al voto operaio, che lo boccia all’unanimità. Gli operai vogliono riaprire le trattative: non possono accettare – dicono – quello che assomiglia troppo a uno smantellamento. Tornano a presidiare i cancelli perché le alesatrici e le altre macchine non vengano smontate, convinti che il vero obiettivo dell’azienda sia la messa a rendita fondiaria dal capannone, ultimo intralcio nella costruzione di un nuovo quartiere residenziale.
La proprietà – che ha rifiutato l’arbitrato dell’ispettorato del lavoro e ha disposto la sorveglianza di 12 guardie giurate – impedisce agli operai anche l’ingresso per tenere assemblee sindacali. Sulle spalle dei lavoratori pesano 38 provvedimenti disciplinari, sospensioni e trattenute. L’ultimo atto giunge lo scorso 27 gennaio, quando la dirigenza invia una lettera in cui accusa gli operai di essersi “quotidianamente adoperati per ostacolare l’esecuzione delle attività previste” dal piano di risanamento, “imponendo viaggi a vuoto alle ditte esterne, terrorizzando il loro personale, ritardando l’orario di inizio dei lavori, costringendoci persino a fare ricorso a un servizio di vigilanza esterna per il controllo degli accessi dello stabilimento. […] Sino a oggi l’ammontare del danno subito supera abbondantemente i 200.00 euro. Di detto danno Le chiederemo il risarcimento nelle sedi opportune“.
Una lettera surreale, che rappresenta la rottura di una soglia. «Già il fatto di colpire gli scioperanti con sanzioni pecuniarie è un’azione antisindacale senza precedenti – commenta un operaio – ma colpire le famiglie spaventando chi ci è vicino, nel tentativo di farci desistere dalla lotta, è veramente una barbarie».
Una criminalizzazione della protesta davanti alla quale sindacato, intellettuali, attivisti e cittadini non possono che ricucire le maglie della solidarietà e di un comune agire politico.
*Per chi desiderasse approfondire, la vicenda della Innse è ripercorsa nel testo di Paolo Alessandro Mattiello, “Il carroponte”.