Ci ho messo tempo, tanto tempo a decidere se scrivere o meno queste poche righe sui fatti di Lavagna. Se ho deciso di farlo è un po’ perché sento che mi riguardano da vicino, da troppo vicino, un po’ perché mi provocano un dolore insopportabile e, scrivendone, mi illudo che diminuisca.
Ma dirò poche cose, le mie posizioni antiproibizioniste non sono un mistero per nessuno.
Vede, signora, non voglio farle la morale e nemmeno giudicarla. In un certo senso, scrivere queste righe mi dà pena e imbarazzo.
Che fosse stato o meno partorito dal suo ventre, la morte di un figlio è il dolore più immenso che possa capitarci. Merita il rispetto di chiunque, anche di chi, come me, trova quanto lei ha fatto incomprensibile, per certi versi orrendo e assolutamente innaturale.
Voglio solo raccontarle una breve storia: la mia.
Tra i 20 e i 28 anni io sono stato un ‘junkie’, ho provato, con sostanze ben più pericolose e devastati della cannabis, a distruggere la mia vita. Oggi so perché e non mette conto parlarne qua.
Ma per quasi 6 anni, dal momento in cui se ne è accorta, ogni giorno mia madre mi è stata vicina, mi permetteva di farlo in casa, mi comprava siringhe pulite che i farmacisti a me non avrebbero dato, mi accompagnava, senza mai dar segno di vergogna, al Sert per prendere le dosi di Metadone.
Soffriva, soffriva immensamente, soffriva senza posa, senza respiro, ma è stata là ogni giorno, sempre con la mano tesa verso di me, armata di pazienza. Ha aspettato. Oh quanto ha aspettato: che io tornassi vivo la sera, che capissi quanto grande era il suo dolore, che trovassi la voglia e il tempo per dimostrarle il mio amore, che capissi che stavo uccidendomi.
Lei aspettava e io fuggivo. Ma, quando tornavo, era là. Se stavo troppo male per trovarmi da solo una dose, si metteva in macchina con me, mi accompagnava, stava attenta a che guidassi senza imprudenze, subiva di incontrare con me quelli che sulla mia vita lucravano, li odiava, ovviamente, ma aspettava con me che arrivassero, li pagava, mi riaccompagnava a casa. Incredibile vero? Ma continuava ad aspettare e a parlarmi, a farmi sentire che non ero solo, che un filo, un esile filo tra me e la realtà era rimasto e che se mi fossi attaccato a quel filo, avrei potuto risalire la china, essere di nuovo libero, riacquistare il diritto e la voglia di realizzare i miei sogni, che erano anche i suoi. E infine ha vinto lei.
Io oggi ho 60 anni, sono vivo, non ho l’Aids, ho tutti i miei denti in bocca, scrivo poesie e le metto in musica, insegno a splendidi ragazzi, ho una famiglia normale e un bellissimo figlio e non ho mai più sentito il desiderio di tornare indietro. Mai.
Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, l’ho dedicato a lei, perché mi aveva partorito due volte.
Mia madre non ha mai nemmeno pensato di denunciarmi, sapeva bene che a uccidermi non era quella sostanza, ma il dolore, la solitudine, lo sperdimento. E contro il dolore non c’è Guardia di Finanza che tenga. Non si può vietare il dolore. Con il dolore e il disagio, soprattutto con quello dei propri figli, bisogna farci i conti, mi creda.
Non è la droga che uccide i nostri figli, gentile signora, è questo nostro modo di vivere, di convivere, questa nostra incapacità di parlarci, toccarci, stare insieme, condividere, anche e soprattutto in famiglia.
Non è certo colpa sua, se noi anziani abbiamo così poco da dire e da insegnare ai giovani: vivono in un mondo totalmente diverso dal nostro, almeno quanto quello dei nostri nonni era sostanzialmente simile al nostro, quando avevamo la loro età.
Ma, nonostante tutto, può una madre permettersi il lusso di chiedere aiuto, per fare la madre, a qualcuno che ha solo il compito di reprimere e punire? Prima che diventasse madre, signora, qualcuno le ha spiegato la differenza che c’è tra reprimere e educare? Cosa significa, per lei, il vocabolo ‘famiglia’? E quello ‘compassione’? Pensava davvero che qualche divisa potesse risolvere il problema che riteneva avesse suo figlio? Quando pronuncia la parola ‘droga’ sa a cosa si riferisce? Come avrebbe reagito, se suo figlio fosse tornato a casa ubriaco tutte le sere? In quel caso, denunciarlo non avrebbe potuto.
L’hanno chiamata ‘madre coraggio’: mi creda, ciò che le è mancato è stato proprio il coraggio, è per non aver avuto coraggio di essere madre sino in fondo che oggi sta soffrendo questa pena che immagino sia immensa.
Il coraggio vero, mi pesa dirlo, ma la penso così, sarebbe stato parlare con lui, riuscire a farsi dire quel dolore immenso che forse si portava dentro e che gli ha reso insopportabile, qualcosa che altri coetanei avrebbero potuto magari sopportare, magari non da soli.
Mi scusi se l’ho turbata più del dovuto. L’abbraccio, nonostante tutto.