di Giusy Cinquemani
È un accadimento forte, ampio e potente questo del suicidio del ragazzo di 16 anni, in seguito alla denuncia da parte della madre per uso di hashish e alla successiva perquisizione da parte delle forze dell’ordine.
Non si può non dire nulla, perché di troppe parole in questa storia se n’è fatto un uso improprio. Una delle parole usate impropriamente è il termine “dolore”.
Lavoro da tanto tempo con figli e genitori per non sapere che quella che chiamiamo “adolescenza” è uno dei momenti più difficili della vita, difficile oltre le fantasie onnipotenti dei bambini che si sentono grandi, difficile oltre le invidie degli adulti per la giovinezza perduta, difficile oltre le immagini false e seduttive che la nostra società dei consumi attribuisce all’adolescenza.
Per incontrare figli e genitori, l’esperienza che si fa lavorando è importante, ma importante è anche, per il terapeuta e soprattutto per i genitori, il ricordo di come si è stati adolescenti. Il mettere mano a quella sorta di fedina penale interiore fatta di grandi e piccoli svarioni: corse in moto spericolate, giornate al mare anziché a scuola, canne e alcol, sesso poco serio, passioni estreme, odio e rabbia nei confronti di adulti, vissuti di colpa e di terrore per errori riparabili e irreparabili. In mancanza di un contatto con questa fedina penale interiore, o in presenza di una fedina penale interiore taroccata o candeggiata proprio nell’assunzione del ruolo di genitori, un figlio adolescente, non più bimbo, con un corpo e la forza di un adulto, ma con la boria e l’onnipotenza di un bambino, diventa un alieno, uno sconosciuto, un pericolo, una minaccia. Allora il dolore può essere tanto.
Ma di che dolore parliamo?
Per quanto riguarda questa madre in questione, ce lo dice chiaramente lei stessa ringraziando le forze dell’ordine per averla ascoltata e agito: “Un urlo di disperazione di una madre che non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi ed ha provato con ogni mezzo a combattere la guerra contro la dipendenza prima che fosse troppo tardi”.
Purtroppo però questa disperazione non è dolore, questa è rabbia, è furia, è lutto non elaborato per il figlio non avuto, per il figlio che questo bambino adottato in Brasile 15 anni prima non è mai diventato, rabbia per la madre che lei non è mai diventata. Tutto questo non è un’illazione, questo lo dice lei stessa nel lungo assurdo discorso al funerale del ragazzo.
Dispiace certo, ma occorre dirlo, che questo non è dolore, altrimenti si priva di senso l’esperienza di chi il dolore sa veramente cos’è.