La fondatrice del Festival del Giornalismo di Perugia critica punto per punto il ddl presentato al Senato contro le false informazioni pubblicate in rete. "Dal testo traspare un istinto illiberale. Bisogna imparare a 'leggere' le notizie. Ma la disinformazione è sempre esistita. E mi sembra sia diventata un problema da quando Trump ha vinto"
“Il problema non è tanto il ddl in sé, ormai, quanto il sottotesto culturale che ha portato a una bozza del genere. È per questo, in sostanza, che abbiamo deciso di prendere posizione. Il ddl in sé è estremamente fragile dal punto di vista della compatibilità con la Costituzione. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare questo tentativo solo perché contraddittorio e fallace: bisogna tenere alta la guardia sull’assetto culturale che è alla base di quella proposta, con la quale dobbiamo fare i conti”. Arianna Ciccone, organizzatrice del Festival del Giornalismo di Perugia, parla del ddl contro le fake news presentato al Senato, che il blog collettivo da lei fondato – Valigia Blu – ha aspramente criticato punto per punto. “Dal testo emerge la scarsa competenza su questi temi da parte dei proponenti – prosegue – Come ha scritto Fabio Chiusi su Valigia Blu, emerge una concezione della Rete che porta alla demonizzazione, cercando così di irregimentare il web in modo da renderlo innocuo strumento di trasmissione del consenso, invece che un libero canale di espressione del dissenso”.
Scrivete anche che gli strumenti di contrasto esistono già e sono le norme vigenti. Ad esempio, contro la diffamazione. Perché il legislatore nel corso degli anni insiste con questa proposta rivolta su blog e forum?
Perché sfuggono le dinamiche della Rete e perché in definitiva emerge un istinto illiberale. Nel testo si legge: “…la libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito dell’informazione, vuol dire una notizia corretta a tutela degli utenti”. Questa frase è concettualmente pericolosa: chi decide cosa è corretto e cosa no, e chi controlla i controllori? La verità non può essere imposta per legge. Questo succede nei regimi autoritari. In Cina il problema lo hanno risolto, c’è solo la verità di Stato. È questo il modello a cui aspiriamo? Come ha splendidamente scritto Carlo Blengino (avvocato penalista, ndr): sulla verità non si legifera. Fino a quando ci sarà libertà di espressione, ci saranno bugie e falsità, da parte dei potenti e da parte degli utenti.
Ma già oggi le regole esistono.
Sì, sia online che offline. Ed è bene ribadirlo. La concezione di una Rete senza regole, così come dicono questi legislatori, è essa stessa una “fake news”. E quante volte abbiamo sentito politici dire che “il web è come il far west”? Bene, è un’espressione priva di fondamento.
Quali sono i punti più critici del testo?
Innanzitutto non c’è consenso unanime sulla definizione di fake news, che è un fenomeno complesso. La vulgata è che siano un fenomeno preoccupante, perché influiscono sul comportamento e sulla opinione delle persone. Ma evidenze scientifiche di questo concetto, ormai dato per scontato, non ci sono. Non sappiamo nemmeno quale sia la portata di questo fenomeno, e se davvero sia così impattante sul comportamento delle persone. Perché la propaganda politica, la disinformazione, il cattivo giornalismo non dovrebbero suscitare la stessa preoccupazione? E poi il testo presenta articoli che mettono insieme – e male – tutto. Primo: ammenda e carcere per chi diffonde false informazioni. Questo significa che è punibile anche chi in buona fede condivide un post o retweetta un contenuto che risulterà poi falso? E si specifica che le sanzioni riguardano anche informazioni che sono fuorvianti per l’opinione pubblica. Ma come si può stabilire in modo oggettivo cosa sia fuorviante? Il ddl prevede anche l’obbligo di registrazione alla sezione per la stampa di chi vuole aprire un sito. Ma questo vale anche per chi ha un profilo Facebook in cui parla di politica?. E vuole introdurre l’obbligo di rettifica senza possibilità di replica per i blog. E nel caso in cui la rettifica fosse falsa?
Si parla anche di diritto all’oblio.
Sì, riferito a contenuti diffamatori o irrilevanti, come se fossero la stessa cosa, che vanno rimossi da Internet. Così si affida ai gestori dei social una sorta di controllo preventivo. Ma chi controlla? E non ci ricorda forse le leggi-bavaglio? In più emerge la contrapposizione tra un giornalismo “tradizionale” buono e un web cattivo e inaffidabile. Questa banalizzazione è smentita quotidianamente. Ci sono buoni e cattivi esempi di giornalismo tradizionale, ci sono buoni e cattivi esempi di informazione digitale. E un altro esempio di impreparazione dei proponenti riguarda l’uso del termine whistleblower: chi svela segreti in nome della trasparenza e per il bene e interesse pubblico, nel testo vuole indicare chi sui social segnala irregolarità.
Poniamo il caso che questo testo diventasse legge: potrebbe funzionare per contrastare le fake news?
Ovviamente no. Le fake news non si contrastano con la censura, ma con l’alfabetizzazione. Non si contrastano con la repressione. Ma rendendo i cittadini sempre più critici, attrezzati e consapevoli. È incredibile che a dircelo debba essere il fondatore e proprietario di Facebook, un’azienda privata (e sponsor del Festival Internazionale del Giornalismo, ndr) che ai politici che spingono per filtri preventivi e censura risponde: “Non è con la rimozione dei contenuti che si risolve ma rendendo sempre più competenti le persone”. È un discorso che mi sarei aspettata, anni fa, da qualche buon ministro dell’istruzione.
Se il legislatore volesse davvero essere efficace nella sua azione di contrasto contro la circolazione delle false informazioni in rete, chi dovrebbe colpire? E soprattutto: c’è qualcuno da colpire?
È una questione è di educazione e di alfabetizzazione ai media e alle news. I cittadini devono imparare ad acquisire un atteggiamento scettico verso l’informazione. Imparare a “leggere” le notizie, chiedersi se un contenuto è affidabile o meno. Alcune testate straniere stanno portando avanti da un lato intere sezioni dedicate alla verifica (che è alla base del buon giornalismo), dall’altro all’educazione (media literacy) in collaborazione con Università e scuole. Non dimentichiamo che la disinformazione è sempre esistita. Propaganda, false informazioni si sono sempre accompagnate alle “real news”. Oggi viviamo in un ecosistema informativo estremamente più ricco e complesso. E questo amplifica la capacità di diffusione delle fake news ma al tempo stesso anche delle real news. E la possibilità di smontare una notizia falsa e diffondere la sua versione corretta è più forte oggi rispetto al passato, quando a dominare c’era un sostanziale oligopolio mediatico. Dobbiamo occuparci di questo: di come riuscire come individui e comunità a gestire questa mole enorme di informazione, di come garantire alle persone la fruizione dei contenuti più diversi, che vanno oltre pregiudizi e abitudini individuali di consumo mediatico.
Non dimentichiamo che c’è una forte esigenza da parte di siti e testate di fare clic, anche con contenuti di scarsa qualità.
Il problema è anche il modello di business che è alla base dell’informazione online: l’esigenza di traffico spinge a un’informazione sempre più mediocre e di basso costo ma che riesca ad attirare l’attenzione delle persone il più possibile. Un cinismo da cui nemmeno i media cosiddetti “di qualità” sono immuni. E alla base della diffusione delle fake news c’è anche una componente economica. Google, Facebook hanno deciso di sottrarre pubblicità a siti e blog non affidabili. Però faccio notare che molti siti di testate anche autorevoli ospitano contenuti molto vicini alle fake news, che servono solo per attirare l’attenzione del lettore con titolo ad effetto e informazioni fasulle e ingannevoli spacciate per giornalismo.
A puntare il dito contro i grandi colossi del web è stato il Times. L’esempio era quello della diffusione del documentario dello “screditato ex medico Andrew Wakefield” sui fantomatici legami fra vaccini e autismo. Film che viene venduto su Amazon Instant Video a meno di una sterlina, Apple iTunes a 6,99 sterline e On Vimeo a 3,17.
La critica è legittima. Ma su disinformazione e informazione ingannevole a scopo di lucro sfido chiunque a scagliare la prima pietra. Nessuno è immune. Allora la mia sfida è: partiamo da noi, dal giornalismo che facciamo e diffondiamo. Perché anche qui si fa la differenza. La lotta al cattivo giornalismo dovrebbe essere il vero, primo passo per la credibilità e reputazione di chi fa del giornalismo la propria professione e per la ricostruzione di un solido rapporto di fiducia con il pubblico, con i cittadini.
Al di là del giudizio sul ddl, però, il problema fake news esiste. E anche l’Unione europea ha più volte lanciato l’allarme contro la diffusione e la condivisione di false informazioni, anche mettendo a punto strumenti comunicativi di contrasto. Finora per smontare le false notizie diffuse dalla propaganda russa. Ricordiamo l’account twitter @EUvsDisInfo, The Disinformation Digest e The Disinformation Review. Credi possano essere efficaci?
Esiste il problema della cattiva informazione, della manipolazione delle notizie, della disinformazione. Che facciamo, interveniamo per legge anche su questo? Gli strumenti citati sono nati prima della questione dibattuta in questi giorni intorno alle fake news. E riguardano la propaganda russa. Non so quanto il pubblico, i cittadini siano a conoscenza di questi strumenti, ho i miei dubbi. Strumenti poi che si limitano a un sito, un account twitter molto scarno, senza il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini – fondamentale per poter parlare in qualche modo di efficacia -, e una newsletter. Mi sembra quanto meno ingenuo.
Se parliamo oggi di fake news, pensiamo soprattutto a Trump. Credi che lui abbia trovato una strategia migliore per veicolarle o semplicemente attaccarlo su questo è diventata un’arma politica?
La mia sensazione è che le fake news siano diventate un problema perché Trump ha vinto. Una facile scorciatoia – il classico capro espiatorio – per spiegarci quello che non riusciamo a spiegare e accettare. Com’è possibile che le persone abbiano votato per Brexit? Com’è possibile che Trump abbia vinto? Ho idea che se avesse vinto Clinton questo interesse paternalistico di proteggere dalla disinformazione i poveri cittadini disarmati non ci sarebbe stato. Esiste davvero una emergenza fake news? Dove sono dati, prove a sostegno del fatto che Trump ha vinto grazie alle fake news diffuse online? Perché si sta caricando il fenomeno di una emergenza di cui non abbiamo nessun dato a disposizione?