In una capitale europea allo sbando quale oggi è Roma, accade che sia un immobiliaristaLuca Parnasi – in accordo con un dirigente sportivo, James Pallotta co-proprietario dell’AS-Roma, a stabilire dove sia più conveniente costruire un’opera di interesse pubblico come uno stadio; non il Comune – Piano Regolatore alla mano – come in tutti i paesi civili. Ulteriore stortura che non ha eguali in Europa, il Comune regala cubatura a un privato, in cambio di infrastrutture. E accade anche che – per far spazio al nuovo stadio della Roma, con capienza di 52.500 posti, discutibile progetto dell’architetto statunitense Dan Meis, che si dovrebbe realizzare a Tor di Valle, un’area di 125 ettari a sud-ovest di Roma (area che Parnasi ha rilevato alla fine del 2012) – si debba demolire un’opera straordinaria, sottoposta a vincolo comunale e inserita nella Carta delle Qualità del nuovo piano regolatore di Roma nel 2008, come l’ippodromo di Tor di Valle, progettato nel 1957 dal talentuoso Julio Lafuente con l’ing. Gaetano Rebecchini.

ippodromo-tor-di-valle-lafuente

Accade infine che su questi due elementi indubbiamente non neutri, l’ex assessore all’Urbanistica della giunta Marino, l’architetto Giovanni Caudo, professore presso l’Università Roma Tre, purtroppo non abbia nulla da dire. E che neppure trovi da eccepire che nel nome di un “progetto tutto privato”, i romani non siano stati coinvolti in una consultazione partecipativa, come negli altri paesi europei.

Come è successo, ad esempio a Monaco, con l’elegante ed efficiente stadio Allianz Arena, progettato dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, terminato nel 2005: espressione di un progetto accompagnato da un iter partecipativo e condiviso dai cittadini. In una prima fase il Consiglio comunale locale fissò i criteri per la scelta delle aree, individuandone cinque idonee; tra queste, venne preferita quella di Frottmaning, che garantiva una migliore accessibilità allo stadio. In una seconda fase fu indetto un referendum tra i cittadini: la maggioranza si espresse favorevolmente alla realizzazione dello stadio e – successivamente – fu promosso un concorso di progettazione ad inviti, vinto appunto da Herzog & de Meuron.

A Roma, invece, nel nome dell’investimento privato, in una situazione in cui il dileggio per le procedure democratiche è costante e viene intenzionalmente scoraggiata la partecipazione ai processi decisionali, diventa normale che si intervenga sulla città senza il dovuto confronto con i cittadini e che lo strumento democratico e partecipativo offerto dal concorso di progettazione, che permette di entrare anche nel merito del linguaggio architettonico, venga scavalcato dalla velocità proprietaria e di chi procede confidando su mani libere e impunità. E’ il co-proprietario dell’AS-Roma Pallotta, infatti, ad imporre l’estetica, incaricando l’architetto Dan Meis che ha pensato bene di progettare lo stadio della Roma, ispirandosi – pensate un po’ – al Colosseo: “All’esterno sarà circondato da un anello sospeso che ricorderà in chiave moderna gli archi e le pietre del Colosseo” (sic!).

Un’interpretazione del moderno banale e semplificata, ridotta all’uso di acciaio e vetro, teflon e pannelli fotovoltaici, combinati a citazioni fuori luogo e naif, come le grandi targhe in travertino con numeri romani che contrassegnano le tribune; o la quinta in acciaio, che riproduce come un motivo decorativo lo Sperone in laterizio, aggiunto da Stern nel 1806 per il restauro del Colosseo. Il risultato complessivo è caricaturale e volgare e nulla ha a che vedere con la memoria storica di Roma, ma – piuttosto – con Las Vegas. Alla capitale del gioco e – un tempo – dei matrimoni lampo sembra ispirarsi il senso della storicità e persino della modernità, fraintesa e mortificata nei suoi valori di astrazione e plasticità, che promanano dal progetto. Adiacente l’ingresso principale dello stadio, gli spazi per l’intrattenimento e i servizi annessi ricordano l’estetica dell’Outlet di Castel Romano, il tempio dello shopping a 25 km dal centro della Capitale.

Il progetto prevede inoltre la realizzazione di un business park con tre torri sghembe, la cui ideazione è stata affidata all’architetto Libeskind (attualmente impegnato per Citylife, la peggiore speculazione immobiliare italiana realizzata all’ex Fiera di Milano), rappresentante dell’ormai archiviato decostruttivismo, movimento che ha (fortunatamente) esaurito la sua stagione di sperimentalismo esasperato da singolarità formali e inedite. Il suo linguaggio è riproposto da Libeskind – troppo occupato a celebrare la sua idea egotica di architettura, per prestare attenzione a quale latitudine e in quale continente mettere le sue torri – uguale a se stesso a Roma come a Seul, a Toronto o a San Paolo.

Come tutto questo abbia potuto strappare all’allora Giunta Comunale di Roma, una dichiarazione di pubblico interesse ai sensi della legge n. 147/2013, art. 1, c. 304, lett. a. (giunta che ha persino ravvisato nel progetto un’opportunità imperdibile per Roma) rimane un mistero. Unica certezza: l’inadeguatezza politica nell’affrontare grandi interventi.

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