“Che la soluzione sia a uno o due Stati, quella che loro preferiscono”, l’importante è arrivare alla pace. Le parole scandite da Donald Trump il 15 febbraio alla Casa Bianca alla presenza di Benjamin Netanyahu hanno congelato il principio dei “due popoli, due Stati” alla base delle trattative di pace tra israeliani e palestinesi fin dagli accordi di Oslo del ’93. IlFattoQuotidiano.it ha interpellato sull’argomento due osservatori d’eccezione: lo scrittore Meir Shalev, favorevole (anche se con disincanto) ai due Stati, e l’editorialista di Haaretz Gideon Levy, secondo cui lo Stato unico sarebbe la strada per la pace.
Meir Shalev, cosa pensa della soluzione dello Stato unico binazionale?
“È un’opzione che è sempre esistita, ma è sempre stata meno popolare della soluzione dei due Stati. Alcuni ci credono davvero, come l’attuale presidente Reuven Rivlin che la sostiene da anni con un approccio liberale e umanitario, considerando i palestinesi cittadini amici e con pari diritti. Un approccio che sostengo ma che trovo un po’ naïf, non credo sia applicabile al momento”.
Perché naïf?
“Perché Israele sparirebbe. Nascerebbe un nuovo grande Stato arabo in Medio Oriente dove gli ebrei sarebbero una minoranza nel loro stesso Paese. Lo dice la demografia”.
Anche l’estrema destra, però, è entusiasta dello Stato unico.
“Perché adottano un approccio completamente diverso da Rivlin, con un’idea di Stato molto distante da quella del presidente. Loro non vogliono cedere i territori occupati nel 1967, anche per motivi religiosi. Quindi vogliono annetterli in uno Stato in cui i palestinesi, però, non hanno gli stessi diritti degli ebrei e non votano per il Parlamento. Uno Stato così non sarebbe democratico, sarebbe uno Stato di Apartheid. Per questo motivo credo che la soluzione dello Stato unico sia una pessima idea, perché accrescerebbe tensioni, violenze e terrorismo. Dobbiamo portare a termine la soluzione a due Stati, convivendo civilmente l’uno accanto all’altro. Spero che accada presto e che l’elemento religioso non influenzi troppo il processo”.
E Netanyahu? Ha sempre respinto l’idea di Stato Unico, ma si è sempre opposto al riconoscimento di uno Stato di Palestina.
“Benjamin Netanyahu supporta qualsiasi posizione che non lo obblighi a prendere una decisione. Ha paura di prendere una decisione, non è capace di fare grandi scelte politiche. La stessa cosa vale anche per la controparte palestinese, ovviamente. Credo che l’obiettivo di Netanyahu sia rimanere primo ministro fino a quando prendere una decisione sarà diventato inevitabile. A quel punto si dimetterà. Sfortunatamente per lui, però, la storia corre veloce e quel momento sembra essere arrivato”.
Quando parla di politici in grado di prendere decisioni difficili ha in mente qualcuno in particolare?
“Non ho una conoscenza così approfondita del panorama politico palestinese, ma mi vengono in mente personaggi come Mohammed Dahlan, Jibril Rajoub e anche Marwan Barghouti, che si trova in prigione da anni ed è considerato un terrorista. Anche noi abbiamo avuto primi ministri considerati dei terroristi, come Menachem Begin, ma succede in Paesi dove si lotta per le proprie libertà. In Israele, invece, non vedo personaggi all’altezza, forse esistono ma sono ancora sconosciuti. Tzipi Livni mi piace, l’ho apprezzata molto in passato e l’apprezzo ancora, ma è molto impopolare tra gli israeliani che la incolpano di aver cambiato troppe volte partito”.
Come è stata accolta in Israele l’elezione di Donald Trump?
“L’estrema destra è euforica. In molti pensano che Trump sia il miglior amico d’Israele nella storia dei presidenti americani perché dice loro “fate come volete”. Io, però, credo che il miglior amico di Israele sia quello che spinga il Paese ad abbandonare i territori occupati nel 1967. Sarebbe una svolta positiva non solo per i palestinesi, ma anche per gli israeliani. In tutta sincerità, credo che Trump non conosca bene la situazione mediorientale. Quindi ha detto a Netanyahu “fate come volete, non mi importa, l’importante è arrivare alla pace”. Credo sia un atteggiamento irresponsabile che, tra l’altro, metta anche in grande imbarazzo Netanyahu. Da oggi, sarà ancora più pressato dall’estrema destra. Per questo credo che Trump, dopo l’incontro, abbia segnato l’ inizio di una Terza Intifada. Perché la violenza apparirà l’unico mezzo per attirare l’attenzione internazionale e degli Stati Uniti”.
Obama, invece, era un amico?
“Nemmeno lui ha preso decisioni. Non gli piaceva Netanyahu e forse nemmeno Israele, ma non ha mai fatto niente per avviare un processo di pace. Quando fu eletto Presidente, molti dissero che sarebbe stato un buon amico d’Israele. Questo perché molti qui credono che un buon amico sia colui che ti permette di fare ciò che vuoi. No, un buon amico d’Israele spinge il Paese ad abbandonare i territori occupati, solo così si può arrivare alla pace”.
Secondo lei israeliani e palestinesi sono pronti per una convivenza? Lo Stato unico la prevede
“Generalmente, tra vicini di casa c’è amicizia, rispetto, e pacifica convivenza. Se si inizia a guardare e a riferirsi a queste persone come gruppo, ecco allora che vengono fuori i problemi. Inizieranno a discutere di terra, di onore e, soprattutto, di luoghi sacri. La religione è il vero veleno nel cuore di questo Paese. Israele è come un reattore nucleare fuori controllo e la religione è l’uranio. Roma, Atene e Gerusalemme sono le tre città che hanno maggiormente influenzato la storia e la cultura nel Mediterraneo. Le prime due si sono liberate dalle catene del passato, vivono il presente e guardano al futuro. Qui, invece, poco è cambiato dai tempi dei Crociati”.
A proposito di pace. Trump ha chiesto a Netanyahu di intraprendere la strada più breve per mettere fine alle ostilità. Cosa pensa, però, della decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme?
“Penso che sia una cosa marginale. Alla maggior parte degli israeliani, compreso Netanyahu, non interessa. E nemmeno agli Usa. È politica, è propaganda che strizza l’occhio all’estrema destra”.