“Facciamo una cosa… i soldi di Larosa… li facciamo fatturare alla Copam… Quindi fattura la Copam… ogni quindici giorni li prendi tu… sempre con la testa criminale”. Il boss Antonio Piromalli, secondo la Dda di Reggio Calabria, era il vero padrone della Copam, il consorzio di Varapodio (costituito da oltre 40 aziende e cooperative agricole operanti nella piana di Gioia Tauro, nella Sicilia orientale e nel basso Lazio) che veniva utilizzato per esportare olio di sansa negli Stati Uniti spacciandolo per olio extravergine d’oliva. Oggi con l’operazione “Provvidenza 2” i carabinieri del Ros hanno eseguito 12 ordinanze di custodia cautelare emesse dai gip Adriana Trapani e Domenico Santoro su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho (nella foto), dell’aggiunto Gaetano Paci e dei sostituti Roberto Di Palma, Luca Miceli, Giulia Pantano e Matteo Centini. Poco meno di un mese fa erano stati eseguiti 33 fermi.
Alcuni provvedimenti sono stati notificati in carcere come quello al boss Giuseppe Piromalli detto “Facciazza”. Ai domiciliari è finito anche suo fratello, Antonio Piromalli detto “u Catanisi”. Secondo gli inquirenti, anche se più defilato dal punto di vista operativo, Antonio Piromalli (omonimo del nipote i cui interessi si spingevano fino a dentro l’Ortomercato di Milano) era ancora ancora molto influente nella pianificazione delle strategie criminali della cosca. In particolare, si era attivato per risolvere alcune controversie tra gli affiliati e aveva cercato di rinsaldare i rapporti con la cosca Molé, un tempo un tutt’uno con i Piromalli, attraverso la figura di Michele Molé detto “Michelino” (anche lui arrestato oggi) spartendo con lui i proventi illeciti degli affari criminali legati alla gestione del porto di Gioia Tauro.
Detenuto da molti anni, invece, “Facciazza” riusciva a impartire i suoi ordini grazie ai familiari e, in particolare, grazie al figlio Antonio attraverso il quale materialmente dirigeva l’attività del clan. I carabinieri hanno eseguito anche il sequestro preventivo di beni per 50 milioni di euro. I sigilli sono stati applicati alla società “S.G.F. Fratelli Careri Srl” (con sede a Milano e stabilimento a San Ferdinando (Rc) e al consorzio Copam di Varapodio, costituito da una quarantina di cooperative che operano nella piana di Gioia Tauro, nella Sicilia orientale e nel basso Lazio.
Tra gli arrestati, infatti, c’è Rocco Scarpari il quale, pur figurando quale dipendente della Copam, “la gestiva come fosse una sua proprietà. – scrivono i magistrati – In questo senso, Scarpari quindi metteva la Copam a disposizone di Antonio Piromalli”. Ed è proprio attorno a questo consorzio che ruota il secondo filone dell’inchiesta “Provvidenza” attraverso cui i magistrati sono riusciti a dimostrare “la caratura imprenditorial/criminale” di Piromalli il quale si è servito dei fratelli Careri (arrestati) imponendogli di vendere l’olio (destinato al mercato statunitense) alla Copam a 2,50 euro a bottiglia. In questo modo, ogni bottiglia venduta il giovane boss incassava 50 centesimi di mazzetta per la mediazione che imponeva anche alla Copam. Il figlio di “Facciazza”, infatti, ha non solo stabilito un prezzo di acquisto che il consorzio doveva rispettare ma è riuscito a “piegare gli interessi dell’impresa” ai suoi.
“Io ho messo il fornitore ed ho messo il cliente. Noi facciamo da mediatori, prendiamo la mediazione da quello che vende l’olio e la mediazione da quello che acquista l’olio”. Per capire il giro d’affari è sufficiente leggere alcune intercettazioni in cui è lo stesso Piromalli a spiegare alla moglie Loredana Sciacca il business dell’olio di sansa esportato negli Stati Uniti grazie alla ‘ndrangheta. A lei ha ripetuto il ragionamento fatto alla Copam: “Tu compri l’olio da Careri. Lo compri a 2 euro e 50 a bottiglia e glielo rivendi a Rosario a 2 euro e 63… ci ricarichi 13 centesimi… 3 centesimi ce li riconosce a noi come mediazione”. La matematica doveva essere la passione di Piromalli. Sempre con la moglie si diletta a fare i calcoli di quanto guadagnerà con l’olio “made in ‘ndrangheta”: “50 centesimi a bottiglia sono 5 per 8… sono quasi 9 mila euro a container… tre container al mese fa 9 mila euro l’uno! In tre mesi sono 100mila euro! Come se loro avessero vinto con i pacchi”.