Una volta deciso di trattare con i tassisti – senza neppure mostrare i denti – è stato dannoso aspettare di fissare l’incontro tra le parti per una settimana, lasciando così le grandi città nel caos per 7 giorni. Con scadenti trasporti locali e senza taxi, il caos, la congestione del traffico e l’inquinamento dell’aria sono andati alle stelle. Il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, ben lontano dal mettere in discussione i monopoli nel comparto – come quelli di autostrade, ferrovie, porti e scali aerei – non potrà che rinviare per l’ennesima volta la possibilità di liberalizzare.
Il settore è stato abbandonato (per la gioia di politici e amministratori che se lo sono coltivato sotto il profilo elettorale) a se stesso ed ai suoi corporativismi come tutte le utilities nazionali. Servizi di bassa qualità, alte tariffe e rendite che vengono spartite tra imprese inefficienti e, spesso, un sistema clientelare che brucia ricchezza e penalizza gli utenti. Non di meno il monopolio dei tassisti va superato (gradualmente) per le tariffe troppo alte e per l’importanza, anche simbolica, che esso assume: da Milano all’aeroporto di Malpensa il costo (amministrato) di una corsa è di ben 100 euro, più di un volo di breve raggio.
Le rendite garantite delle auto bianche si tramandano di generazione in generazione o di licenza in licenza, come quelle dei notai. L’unico modo per competere con Uber è che anche i taxi si mettano in discussione: più digitalizzazione, un maggiore presidio, anche delle periferie ed un abbassamento delle tariffe sono le urgenze del settore. Il pasticcio del rinvio della regolarizzazione della normativa, contenuto nel decreto Milleproroghe, conferma il ritardo (o la paura) delle scelte governative nelle politiche di liberalizzazione nel comparto dei trasporti. Abusivismo ed evasione fiscale non sono solo una prerogativa di Uber e dei noleggi con conducente (Ncc), ma anche del settore tradizionale; per questo vanno combattuti ovunque si trovino.
Se la forza di Uber è quella di destrutturare il monopolio, quella dei tassisti non deve essere la contrapposizione cieca ai cambiamenti, come avvenuto in questi anni. Gli spazi ci sono e la necessità di ri-regolamentare le prestazioni dei tassisti tradizionali e regolamentare quelle di Uber, a cui va detto che l’Italia non è un paradiso fiscale. Tariffe con tassametri che calcolano simultaneamente tempo e distanza per assicurare vantaggiosi introiti ai danni degli utenti vanno riviste con una normativa che non può essere lasciata agli umori elettorali del Comune dove vengono applicate. Come il numero semichiuso delle licenze che, fino ad ora, ha rappresentato una vera e propria barriera all’ingresso.
Uber non può stare sul mercato perché non paga i contributi Inps e Inail ai lavoratori: in caso d’incidente un conducente conta solo sulla assicurazione del veicolo usato per il trasporto. E’ un po’ poco per i rischi di un mestiere che soddisfa un’esigenza di mobilità privata, spesso generata dall’inefficienza dei trasporti pubblici. Le autovetture di Uber non hanno i posizionamenti strategici di cui possono godere i tassisti tradizionali (parcheggi riservati nelle stazioni, aeroporti e piazze principali delle città), ma l’app intercetta segmenti di mercato poco appetibili (giovani, periferie e corse notturne del sabato sera o della notte). Tale mercato va liberalizzato con norme semplici e chiare che tengano assieme due approcci diversi, uno ultra-protetto e l’altro ultra-deregolamentato.