Il professore di Informatica giuridica all’Università degli Studi di Milano commenta il disegno di legge presentato al Senato. Un "testo confuso che non stabilisce neanche con quali criteri definire una falsa notizia"
Un testo confuso, che punta ad attaccare il libero dissenso in rete e confonde fake news e pedopornografia. In più, Internet non è il far west, ma un luogo già “iper regolamentato” dove non deve essere un legislatore o un provider “sceriffo” a censurare le informazioni. Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università degli Studi di Milano, commenta il ddl contro le fake news presentato nei giorni scorsi al Senato (qui il testo). Una proposta “liberticida” che vuole imporre nuove regole a siti e forum, applicando anche l’aggravante della diffusione a mezzo stampa.
Da esperto di diritto delle nuove tecnologie, cosa pensa del ddl?
Credo sia inopportuno, pericoloso e censorio. Nasconde le sue reali intenzioni di controllo del dissenso. Lo trovo soprattutto impreciso, sia dal punto di vista tecnico che giuridico. Punta a soffocare il dibattito in rete caricando di responsabilità, burocrazia e sanzioni gli utenti e i provider. Dall’altra parte “salva”, per molti versi, i due principali vettori di odio, notizie false e disinformazione di oggi, cioè molti grandi media e politici. Ed equipara fenomeni eterogenei tra loro che richiedono, invece, regolamentazioni specifiche. Infatti nella relazione introduttiva si fa riferimento a “fake news”, a espressioni che istigano all’odio e alla pedopornografia. Tre universi molto diversi tra loro.
Quali sono i punti più critici?
Partiamo dalle pagine della Relazione introduttiva, dove si spiegano le motivazioni del provvedimento: sono molto chiare, fanno capire bene quale sia l’intento. Già nel titolo, s’individuano tre scopi eterogenei tra loro: prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica. Tutti temi con esigenze differenti e che richiedono approcci originali e ben calibrati.
Nelle stesse pagine vengono elencati anche i pregi di Internet, sottolineando quanto sia importante per la democrazia.
Sì, per poi passare a giustificare una regolamentazione, per occuparsi del “lato più oscuro”. Bisogna sempre diffidare di chi tratta la regolamentazione della rete elencandone, prima, i pregi, a partire dalla sua natura di grande strumento di libertà. Di solito a questo segue la scure della regolamentazione selvaggia.
Di fatto, già dopo poche righe leggiamo la parola “controllo”.
Sì, come in questo passaggio: “La libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito dell’informazione, vuol dire fornire una notizia corretta a tutela degli utenti”.
Non si capisce, però, chi debba stabilire quali notizie siano o meno corrette.
Si parla di notizie sbagliate e distorte o, peggio, manipolate, che non sarebbero “mai circolate alla velocità con cui circolano oggi”. Di un’informazione che diventa disinformazione a fini di propaganda e influenza l’opinione pubblica, di una Rete contaminata da notizie inesatte e infondate. Viene disegnato un quadro terrificante. Ma si dimentica che non sono solo gli utenti, oggi, a far circolare simili notizie, ma anche organi di stampa e politica. Da tempo sostengo che l’odio e le fake news si siano “istituzionalizzate”. Provengono, in sintesi, dai soggetti che, al contrario, dovrebbero dare l’esempio. In particolare media e politica: hanno scoperto che possono essere usate come “valuta” per guadagnare consenso, voti, click e lettori.
Nel ddl non ci sono soltanto le fake news. Si parla anche di istigazione all’odio, cyberbullismo e pedopornografia.
Tutti temi che non c’entrano nulla con la manipolazione delle notizie, ma che sono suggestivi e vengono aggiunti per disegnare un quadro ancora più fosco dove è necessaria, dunque, una regolamentazione. Il testo carica di responsabilità i provider con obblighi di monitoraggio e di rimozione dei contenuti falsi e chiede loro di utilizzare non meglio identificati “selettori software” per rimuovere i contenuti falsi, pedopornografici o violenti. Anche in questo provvedimento si intravede la crociata contro il Web e Facebook e la domanda di sanzioni nei confronti dei gestori di piattaforme.
Al di là della relazione introduttiva, cosa prevedono gli articoli del provvedimento?
Viene punito chi pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o non veritieri attraverso social media o altri siti che non siano espressione di giornalismo online. Già questa distinzione è significativa: non si vuole toccare il giornalismo online con l’assunto che sia maggiormente garantita una qualità dell’informazione. Cosa che non è sempre vera. Si vogliono evitare allarmi infondati e, in caso di diffamazione, la vittima potrebbe chiedere anche una somma a titolo di riparazione in base al grado di diffusione della notizia. Si applicherebbe, poi, l’aggravante della diffusione a mezzo stampa, cosa che sinora non è mai stata fatta e che è concettualmente sbagliata. L’attenzione è rivolta anche alla diffusione di notizie false che possano destare pubblico allarme o fuorviare settori dell’opinione pubblica. O che hanno come oggetto campagne volte a minare il processo democratico, quindi esplicitamente connesse all’opinione delle persone.
La novità riguarda anche chi vuole aprire un sito o un forum.
L’amministratore dovrebbe comunicare via posta certificata entro 15 giorni i dati alla sezione per la stampa e l’informazione del tribunale per aumentare la trasparenza e contrastare l’anonimato, garantendo così la tracciabilità. Un registro, in sintesi, di tutti coloro che scrivono. Se a questo si aggiunge un diritto di replica e di rettifica entro due giorni dalla richiesta, un processo di rimozione dei contenuti (diritto all’oblio) e un programma di alfabetizzazione mediatica con l’ingresso del “buon giornalismo” nelle scuole al fine di creare piccoli giornalisti ben attenti alla verità, il quadro di controllo è completo. Su tutto, ovviamente, la responsabilità dei provider, tenuti a effettuare un costante monitoraggio e un’azione di rimozione anche per i commenti degli utenti e per le frasi offensive che diventano di tendenza.
Viene citato anche il whistleblowing.
Sì, ma a sproposito, perché non c’entra nulla con le procedure di segnalazione degli utenti all’interno di una piattaforma.
In tutto questo, c’è qualche punto di forza nel testo, anche se da riformulare?
No, nessuno. Il testo nasce sbagliato, con un approccio liberticida. Intervenire nella circolazione delle idee in rete è un processo che può solo fare danni. L’approccio al diritto deve essere equilibrato, non costruito attorno a sanzioni e responsabilità quasi oggettive, istituzione di registri e allargamento delle ipotesi penali, e deve sempre essere coordinato con un’azione tecnologica rispettosa del dna della rete.
E rimane un’incognita anche come intervenire a fronte di una “fake news”.
È facile individuare bufale o notizie false clamorose, ma c’è un’area grigia difficilissima da disciplinare e che rientra nell’ambito dell’interpretazione soggettiva. In base a quali criteri stabilire che è una fake news? In che rapporto starebbe, ad esempio, con la satira? E chi dovrebbe stabilire cosa è falso o no? Il governo?
Nel complesso il testo è scritto da persone competenti?
Non lo so. Noto solo molta confusione nell’affiancare temi molto diversi tra loro e che richiedono approcci ad hoc (notizie false, espressioni d’odio, pedopornografia), il solito disvalore nei confronti dell’anonimato, il provider “sceriffo” al centro del sistema di responsabilità. E poi l’equiparazione alla stampa con un’estensione della ipotesi di diffamazione aggravata a mezzo stampa – procedimento non corretto – e la creazione di un elenco di siti tenuto in tribunale per individuare chi scrive e per evitare l’anonimato. Non mi sembra certo un approccio moderno, rispettoso del mezzo tecnologico e consapevole dei pregi della rete.
Il testo chiede a chi vuole aprire un sito di comunicare con posta elettronica certificata – ed entro 15 giorni – cognome e nome, domicilio, codice fiscale alla Sezione per la stampa e l’informazione del Tribunale competente. L’obiettivo, come dichiarato dalla Gambaro, prima firmataria, è che così si può “accrescere la trasparenza e contrastare l’anonimato” e “agevolare chi ha bisogno di rettifiche”. Sarebbe utile in questo senso?
Non credo. Già in rete, oggi, l’identificazione è estremamente semplice. E questi obblighi sarebbero facilmente aggirabili utilizzando strumenti che permettono di aprire siti o blog su provider esteri in servizi nascosti, o utilizzando strumenti per il vero anonimato. La registrazione di tutti coloro che scrivono in rete è già operata in alcuni regimi “non democratici”, ma si è dimostrata facilmente aggirabile.
Chi diffama e offende da anonimo non è individuabile?
Il vero anonimato è estremamente complesso da raggiungere ed è estremamente difficile da portare avanti per un lungo periodo. Oggi, spesso, chi diffama o chi odia lo fa con nome e cognome, come vediamo scorrendo i social network. La polizia postale, oggi, è in grado di individuare i soggetti che scrivono o commentano con toni violenti.
Perché la lotta all’anonimato è sempre stata un chiodo fisso in tutte le proposte di leggi in Italia?
Perché si pensa che l’esposizione delle reali identità possa portare a cambiare i comportamenti, ma non è corretto. Oggi gran parte dell’odio viene veicolato con nome e cognome. In più perseguire chi diffama richiede l’avvio di un complesso percorso giudiziario. Che spesso i personaggi pubblici non vogliono portare avanti per motivi di immagine, per non apparire come un “Davide contro Golia” che se la prende con i più deboli.
In rete ci sono davvero profili “anonimi”?
Ci sono strumenti per l’anonimato, ma non sono quelli comunemente utilizzati nelle discussioni su larga scala, nei gruppi, sui social e nei commenti in coda agli articoli.
Dal punto di vista legislativo, dovrebbero essere messi a punto nuovi strumenti e norme per ostacolare la diffusione di fake news?
Ci sono già strumenti che intervengono se una notizia falsa risulti diffamatoria o possa generare danni nel contesto sociale. Non mi sembra ci sia bisogno di altre leggi. Internet è già regolamentato. Viene presentato come un Far West ma, in realtà, è disciplinato in ogni suo aspetto.
E soprattutto: è un legislatore che deve pensare a come sanzionare chi diffonde false informazioni?
No, secondo me il legislatore non dovrebbe intervenire. Mi sembra più un tentativo di soffocare il dissenso, di reagire alle critiche, di cercare di uniformare il pensiero. È un disegno di legge che alterna approcci di controllo orwelliani – come il registro di chi scrive – a strumenti kafkiani – la burocratizzazione dell’attività dei provider – per controllare la qualità dell’informazione che circola. Ma in tutto questo non si specificano i criteri da adottare. Lasciando così a chi governa il compito di decidere cosa sia verità e cosa non lo sia.