Questione di date, certo, e di modalità di svolgimento del congresso, di “contendibilità” del partito. È da tutto ciò che nasce, ufficialmente, la scissione della minoranza dal resto del Pd. Ma alla base delle divisioni che hanno portato a questa spaccatura insanabile c’è anche dell’altro. Ci sono, per esempio, divergenze sostanziali sui temi economici. Dal fisco alle politiche sul lavoro, dal welfare alla sanità passando per l’ecologia e il rapporto con i sindacati, la visione di Matteo Renzi è stata e continua ad essere per molti versi incompatibile con quella di Pierluigi Bersani e degli altri esponenti della sinistra dem. Ai quali in molti rinfacciano una sostanziale incoerenza di fondo: “Criticate le misure economiche dell’ex premier, ma in Parlamento le avete sempre votate”, è l’accusa. La replica, di solito, suona più o meno così: “Quei provvedimenti li abbiamo sostenuti solo per disciplina di partito, ma non li condividevamo affatto”.

L’inconciliabilità è innanzitutto ideologica. Il principale responsabile dell’agenda economica renziana è l’aretino Tommaso Nannicini, docente bocconiano di formazione liberal e assai critico rispetto all’interventismo statale. Dall’altra parte, Bersani e Roberto Speranza si dichiarano molto più vicini a un approccio keynesiano, predicando la necessità di investimenti pubblici e di politiche redistributive; Enrico Rossi, recente autore del libro Rivoluzione socialista, critica apertamente la “terza via blairiana” più volte lodata da Renzi, e dichiara di ispirarsi a Bernie Sanders e al suo “socialismo roosveltiano”. Ma tutto questo, in concreto, cosa significa? Quali sono gli argomenti su cui le differenze sono più evidenti?

Tasse: diminuzione trasversale o progressività? – “Nessun governo ha abbassato le tasse quanto il nostro”, ha ripetuto più volte Renzi in questi mesi. Un’affermazione tutt’altro che pacifica, se a contestarla è stata, di recente, anche l’Istat. Ma al di là dei risultati effettivi, è la strategia fiscale portata avanti dall’ex premier a non convincere la minoranza. Renzi ha puntato molto sul bonus degli 80 euro: uno sgravio sull’Irpef dal valore di 10 miliardi che ha riguardato circa 10 milioni di persone (compresi gli 1,4 milioni che si sono poi visti costretti a riconsegnare quanto ricevuto). Il taglio di Ires e Irap, e soprattutto l’abolizione della Tasi e dell’Imu sulla prima abitazione, sono state le altre mosse renziane a lungo rivendicate come il segno di una svolta: “Il Pd non è più il partito delle tasse”, ha proclamato il Rottamatore. Ciò che gli scissionisti contestano a Renzi, però, è il taglio trasversale e indiscriminato delle imposte. Bersani e gli altri soci della Ditta – in linea, peraltro, con l’Ocse – predicano invece il rispetto di principi di progressività: chi ha di più, in sostanza, deve dare di più. Per questo contestano la proposta di ridurre gli scaglioni Irpef e la nuova flat tax al 24% sui redditi delle aziende introdotta dalla legge di Bilancio per il 2017. In quest’ottica, dunque, anche aver abolito la tassa sulla prima abitazione in modo indiscriminato è stato un grave errore. “Se Renzi non avesse tolto l’Imu anche alle classi più ricche, ci sarebbero stati 3 miliardi per i più poveri”, ha ricordato nelle scorse ore Rossi.

Lavoro: più o meno tutele? E la sfida è anche su come creare nuovi posti – Sul fronte del lavoro, lo scontro è duplice. Da un lato c’è la questione dei diritti dei lavoratori. La sinistra interna del Pd ha sempre considerato un errore l’indebolimento prima, e la sostanziale abolizione poi, dell’articolo 18. Sia per un motivo concreto, e cioè evitare i licenziamenti facili, sia in virtù della necessità di mantenere una vicinanza ideologica tra il partito e le sue categorie di riferimento, in particolare gli operai. I renziani non ci stanno: sostengono che l’aver rimosso alcune norme anacronistiche contenute nello statuto dei lavoratori del 1970 abbia reso più dinamico il mercato del lavoro italiano adeguandolo a quello europeo. La frattura però riguarda anche le strategie attraverso cui creare nuova occupazione. Il Jobs Act – che secondo Renzi ha favorito la creazione di circa 600mila posti – ha fatto leva soprattutto sui generosi sgravi contributivi concessi alle imprese che assumevano. Bersani ha più volte osservato che quegli incentivi erano eccessivi e non avrebbero prodotto benefici sul lungo periodo. Il rischio, insistono gli scissionisti, è quello di drogare il mercato del lavoro: terminato il tempo degli incentivi straordinari, l’aumento dell’occupazione si ferma. Come sta già accadendo. Sarebbe più opportuno, allora, rilanciare una politica di investimenti pubblici.

Il pasticcio dei voucher e i referendum proposti dalla Cgil: che fare? 134 milioni di buoni lavoro e un problema: che farne, di questi benedetti voucher? Dopo che nel 2016 l’abuso dei tagliandi da 10 euro è divenuto innegabile, la minoranza dem ha insistito perché si prendessero immediate contromisure: “Se non li togliamo noi – va predicando Bersani in queste ore – li toglierà la destra, e a quel punto i giovani ci volteranno le spalle per sempre”. Da mercoledì 22 febbraio è ufficialmente partita la campagna referendaria della Cgil: due quesiti (gli unici, dei 4 inizialmente presentati, ammessi dalla Consulta) da votare in primavera, uno dei quali propone l’abolizione dei voucher. Una causa in favore della quale l’intera sinistra – non solo gli scissionisti del Pd, ma anche Sinistra Italiana, Possibile e Campo progressista – si schiererà compatta. A Renzi l’idea dei referendum non piace: “Io sono dell’idea che se li evitiamo, male non fa”, ha dichiarato il 13 febbraio, rivendicando i meriti del suo governo nell’aver introdotto strumenti per la tracciabilità dei buoni. Per scongiurare il rischio di spaccare (ancora di più) il partito in una nuova campagna referendaria, bisognerebbe intervenire in Parlamento. Attualmente è in discussione alla Camera una proposta di legge, a firma di Cesare Damiano, che intende riportare i voucher alla loro originaria natura: quella stabilita dalla Legge 30 del 2003, quando vennero introdotti per regolamentare il lavoro accessorio e combattere il nero. Nannicini ha detto che quella ipotizzata da Damiano “è una strada”, e ritiene che abolirli del tutto sarebbe un errore.

Welfare: reddito di solidarietà o politiche attive? – C’è ovviamente la sanità, ad animare la polemica sul welfare. La sinistra dem denuncia l’aumento delle spese per le cure private, Rossi afferma che “alla sanità sono stati chiesti più tagli che non alle spese militari”. Ma Renzi non si scompone, e rivendica i 2 miliardi in più concessi dal suo governo al Sistema sanitario nazionale con l’ultima legge di bilancio (una parte però è a rischio perché le Regioni dovranno ridurre le uscite per contribuire ai risparmi previsti dalle ultime manovre). L’altro capitolo spinoso è la lotta alla povertà attraverso l’introduzione di un reddito di solidarietà (o di cittadinanza, o d’inclusione, a seconda delle proposte).

A Renzi la soluzione non piace: “E’ incostituzionale”, dice, “perché l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Non solo: la considera qualcosa di simile a un incentivo al lassismo, come ha sbrigativamente spiegato nell’ultima Assemblea nazionale del Pd: “Io non voglio concedere a nessuno il diritto a starsene in un angolo con una rendita fissa per tutta la vita”. Meglio puntare, quindi, su politiche attive e contributi per la formazione. Di tutt’altro avviso Rossi, il più convinto sostenitore, nell’area degli scissionisti, di un reddito di solidarietà. La sua proposta è quella di garantire 400 euro mensili a circa 6 milioni di poveri, per una spesa complessiva che si aggira intorno a 7 miliardi contro poco più di 1 miliardo stanziato per il Reddito di inclusione previsto dal ddl già approvato dalla Camera e che in breve approverà nell’aula del Senato. Misura che, in piccolo, il governatore toscano ha pianificato già nella sua Regione. E lì, nei giorni scorsi, s’è consumato uno scontro che sembra l’anticipazione di ciò che potrebbe accadere anche su scala nazionale. Quando Rossi ha presentato in Consiglio la sua proposta di legge sul tema, è stato proprio il suo stesso gruppo del Pd, composto in massima parte da uomini fedeli a Renzi, ad avanzare seri dubbi sulla possibilità di reperire i fondi necessari (circa 35 milioni).

Privatizzazioni: Renzi ora frena, ma per la minoranza ha spinto troppo – Quella di Renzi a Palazzo Chigi verrà senz’altro ricordata come una stagione di privatizzazioni. Rai Way, Enav, Poste e Grandi Stazioni Retail sono solo le più importanti tra quelle realizzate tra il 2014 e il 2016. Poi, negli ultimi tempi, c’è stato un ripensamento. In parte a causa del sostanziale flop di molte operazioni, con introiti assai al di sotto delle aspettative. In parte per il timore di una svendita dei cosiddetti “campioni nazionali” (Eni e Enel su tutti). Alcuni parlano di un’inversione di marcia solo apparente, ma gli attriti paiono esserci davvero. Almeno a giudicare dal fuoco incrociato delle interviste. Da un lato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che, sul Corriere della Sera, il 15 febbraio ribadisce l’opportunità di proseguire sulla strada delle privatizzazioni mettendo sul mercato le Fs e cedendo il 30% residuo di Poste ancora nelle mani dello Stato; dall’altro Matteo Orfini che una settimana dopo, su La Stampa, da neo-reggente del Pd ribatte che bisogna dire basta. Anche tra i gruppi parlamentari del Pd, seppur in sordina, le proteste sono cominciate a circolare, arrivando fino ai dicasteri competenti. Ed è così che anche Bersani, che ha sempre vantato le “lenzuolate” liberalizzatrici messe in campo da ministro dello Sviluppo economico (2007), si è ritrovato ad alzare la voce e invocare un cambio di rotta: “Quelli – è in sintesi il suo ragionamento – erano altri tempi, ora non è più pensabile cedere asset importanti dello Stato, che peraltro garantiscono servizi essenziali”. Anche nel corso dell’evento al Teatro Vittorio organizzato da Enrico Rossi, sabato scorso, molti hanno sostenuto l’urgenza, al contrario, di rafforzare le aziende pubbliche. L’ultima parola l’ha detta Orfini, sempre alla Stampa: “Abbiamo bisogno di rilanciare la funzione delle grandi imprese pubbliche e capire come usare meglio Cassa depositi e prestiti”. Se convergenza c’è stata, alla fine, viene da dire che sia arrivata troppo tardi.

Rapporti con l’Ue: gara al rialzo sulle proposte da avanzare a Bruxelles – Sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione Europea sembra esserci in realtà un sostanziale accordo: basta con l’austerità e il rigore, più investimenti e flessibilità. La differenza si registra semmai nei toni, e nella radicalità con cui – a parole – si vuole lanciare la sfida alle istituzioni comunitarie. Renzi è tornato alla sua versione più battagliera, in queste settimane, e alla Direzione del Pd del 13 febbraio ha scandito: “L’Europa smetta di fare la maestrina. Si discute di tenere fuori dal Patto di Stabilità le spese militari? E allora io dico: teniamo fuori anche le spese culturali”. “Perché solo quelle culturali?”, gli hanno risposto dalla minoranza. Rossi allora ha giocato al rialzo: “Via tutti gli investimenti dal Fiscal Compact”. E dalla platea del Teatro Vittoria a Roma, sabato scorso, sono stati applausi scroscianti (anche se nel frattempo a Strasburgo gli eurodeputati Pd hanno votato insieme a quelli di Forza Italia a favore dell’inserimento del Fiscal compact nei trattati Ue). Il problema, però, è come andare oltre gli slogan, quando si parla di Europa. Renzi in questi anni ha provato a ottenere maggiore attenzione alla crescita, ma per la minoranza del Pd il Piano Juncker è stato un risultato misero, così come le altre concessioni strappate a Bruxelles. Soluzioni alternative? Bersani ha rimproverato all’ex premier e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan di aver sbagliato nella scelta del terreno di scontro: “Perché incaponirsi sui 3 miliardi che la Commissione ci chiede? Se dobbiamo mostrare i muscoli – è il ragionamento dell’ex segretario – facciamolo su questioni più urgenti, come banche e immigrazione”. Ma concrete possibilità di svolta, dall’una come dall’altra parte della barricata del Pd, non sono state prefigurate.

La questione ambientale: dalle trivelle alla decarbonizzazione, le sfide lanciate a Renzi – Bisognerà vedere in che misura le istanze ambientaliste continueranno ad essere agitate dagli scissionisti, ora che il loro principale propugnatore ha deciso di restare nel Pd. Era Emiliano, infatti, il più verde dei “tre tenori” che hanno caratterizzato la rottura. È stato lui a intestarsi la battaglia contro le trivelle nel referendum dell’aprile scorso conclusosi col famigerato “Ciaone” di Ernesto Carbone (pure quello motivo di risentimento, nella lunga guerra intestina al Pd). Ed è lo stesso governatore della Puglia a portare avanti, da molto tempo, l’idea di passare dalla produzione a carbone a quella a gas, facendo magari proprio dell’Ilva di Taranto il laboratorio di questa conversione. Emiliano ora resta nel Pd: darà battaglia a Renzi, su questi temi, nel corso del Congresso. Ma è chiaro che lo scontro su energie alternative e green economy rimarrà aspro, tra scissionisti e renziani. Del resto proprio il referendum sulle trivelle fu il preludio dello scontro frontale del 4 dicembre, con la maggioranza del Pd compatta su una strategia (in quel caso, l’astensione), e la minoranza interna che invece disobbedì e votò No. Bersani, all’epoca, definì “disastrosa” la gestione della vicenda da parte di Renzi: chissà se già allora meditava la scissione.

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