Dalla California l'ex premier rilancia "la scommessa sulle energie alternative" perché "durante i mille giorni abbiamo fatto molto ma ne abbiamo parlato poco". La realtà è diversa: il suo esecutivo verrà ricordato per le trivellazioni più facili nel Mediterraneo, il calo degli investimenti sul fotovoltaico, le mosse del Mef per non far pagare l'Imu alle piattaforme petrolifere, gli annunci per la Sen e il Green Act mai arrivati. Ma ora l'obiettivo è quello di spuntare le armi di Michele Emiliano
E’ la carta che rispunta ciclicamente dal cilindro alla vigilia delle battaglie più importanti. L’aveva tirata fuori quando, nei panni del rottamatore, andò alla conquista del comune di Firenze. Lo fece di nuovo alle primarie del 2012, quando sfidò Pier Luigi Bersani per la leadership del centrosinistra. Poi nel febbraio 2014, presentando il suo governo. E’ successo ancora questa settimana, con la partita del congresso alle porte e il tentativo di fare proprie le armi dell’avversario: dalla California Matteo Renzi torna a rilanciare “la scommessa sulle energie alternative” e sulla sostenibilità ambientale. I temi sui quali Michele Emiliano, suo principale sfidante alle prossime primarie del Pd, ha costruito la propria figura politica e la propria ascesa nel partito. Ma, al di là delle dichiarazioni, per la green economy nei 2 anni e mezzo a Palazzo Chigi l’ex premier ha fatto meno di quanto annunciato.
La gestione del comparto energetico a resta ancorata a “una concezione dello sviluppo troppo legata a modelli del passato“, ha scritto il 16 gennaio Ermete Realacci in un intervento su Linkiesta. Eppure tre anni fa, il 24 febbraio 2014, lo stesso presidente della Commissione Ambiente esultava per i cenni alle “fonti rinnovabili, l’innovazione in campo ambientale con la chimica verde” contenuti nel discorso con cui il neo-premier aveva chiesto la fiducia in Senato. La prima legge a portare gli ambientalisti sulle barricate era stato il cosiddetto “Spalma incentivi“: il decreto 91 convertito il 7 agosto 2014 prevedeva che dal 1° gennaio 2015 tutti gli impianti fotovoltaici di potenza superiore ai 200 kWp non avrebbero più goduto dei sussidi previsti, lasciando la possibilità di scegliere tra un’erogazione dell’incentivo su 24 anni invece che su 20, oppure un taglio secco del sussidio.
L’intero settore aveva bisogno di una regolamentazione, data anche la mole di truffe e casi di “solare fantasma” che andavano a ingolfare i tribunali del Sud Italia, ma l’effetto ha influito negativamente sugli investimenti. “L’aspetto più critico del provvedimento – si legge nel rapporto Rinnovabili nel mirino pubblicato da Greenpeace nel marzo 2016 – risiede nella sua retroattività. Si è deciso di modificare accordi definiti in precedenza per investimenti già effettuati”. Così secondo il report “Global Trends in Renewable Energy Investment 2016” elaborato dall’Unep, il Programma ambientale dell’Onu, nel 2015 “l’Italia ha visto gli investimenti sulle rinnovabili scendere sotto quota 1 miliardo di dollari, – 21% rispetto al 2014 e molto al di sotto dei 31,7 miliardi registrato durante il boom del fotovoltaico del 2011 (prima della lunga sequela di tagli inaugurata dal governo Monti, ndr). Il taglio retroattivo degli incentivi ha contribuito a smorzare l’interesse degli investitori”. Nel 2015 anche la Germania, si legge ancora, aveva conosciuto un calo consistente, “il peggiore da 12 anni”, ma il crollo si era fermato a quota a 8,5 miliardi.
“Sulle rinnovabili il governo Renzi ha soltanto tagliato – spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – dopo la promessa fatta ai tempi del referendum sulle trivelle (e ribadita il 21 aprile 2016 a New York in occasione del dibattito sugli obiettivi per lo sviluppo sostenibile alle Nazioni Unite, ndr) di arrivare entro fine legislatura al 50% di energia prodotta da fonti rinnovabili, l’esecutivo non ha fatto un solo provvedimento serio che va in questa direzione. Non a caso tra il 2015 e il 2016 la percentuale si è ridotta dal 38% al 33%“.
Un mese più tardi scoppiava la grana trivellazioni. Il 12 settembre 2014 il governo aveva varato il decreto “Sbocca Italia“, ribattezzato dai detrattori “Sblocca Trivelle“, perché toglieva alle Regioni e dava a Roma il potere di rilasciare le autorizzazioni per le nuove attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi nel Mediterraneo. Immediatamente la Puglia guidata da Michele Emiliano si metteva a capo di una cordata formata da Basilicata, Marche, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise – oltre a Greenpeace, Legambiente e WWF Italia – che chiedeva e otteneva dopo un lungo braccio di ferro legale e politico il referendum abrogativo. Il 20 marzo 2016, a meno di un mese dal voto del 17 aprile, Renzi chiariva ufficialmente la linea del partito: la segreteria del Pd è per l’astensione“. Per poi ribadire qualche giorno dopo nel pieno delle polemiche: “L’astensione a un referendum che ha il quorum è una posizione sacrosanta e legittima“. Risultato: la consultazione non raggiunse il quorum e “le compagnie hanno continuato a richiedere autorizzazioni per impianti nel Mediterraneo – continua Zanchini – come il progetto Vega di Edison che viene presentato in questi giorni, quando loro negavano che si potessero costruire nuove strutture”.
Nel frattempo, il 19 maggio 2015, il Senato aveva approvato in via definitiva il testo unificato sugli Ecoreati, che aggiornava il codice penale prevedendo il carcere per 5 nuovi reati: disastro ambientale e inquinamento ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento dell’eco-controllo, omessa bonifica. Un testo salutato con soddisfazione da tutte le parti politiche (approvato a Palazzo Madama grazie all’inedita alleanza M5s-Sel-Pd), ma che le associazioni mettevano nel mirino perché orfano del divieto dell’utilizzo dell’air-gun, tecnica che prevede esplosioni ad aria compressa per la ricerca di idrocarburi in mare. Contro la quale il solito Michele Emiliano partiva per l’ennesima crociata.
Ulteriore conferma del senso di Matteo per gli idrocarburi era arrivata il 1° giugno 2016, giorno in cui il Ministero dell’Economia era intervenuto in un pluridecennale braccio di ferro tra giganti del petrolio e diversi territori del Sud. Con la risoluzione numero 3/DF il Dipartimento delle Finanze stabiliva che per le piattaforme di trivellazione le compagnie non devono pagare Imu e Tasi. La motivazione: quel tipo di impianti non è inventariato dal Catasto ma dall’Istituto idrografico della Marina, e di conseguenza per ottenere il pagamento servirebbe “l’ampliamento del presupposto impositivo dell’Imu e della Tasi”, scriveva il Mef. Che prendeva così nettamente posizione in favore dell’Eni contro il comune di Pineto, nel teramano, tentando di superare la sentenza del 24 febbraio 2016 della Corte di Cassazione. Che ribadiva l’obbligo del pagamento in un successivo pronunciamento del 30 settembre 2016.
Tra le misure adottate Renzi può annoverare il Collegato ambientale. Approvato il 22 dicembre 2015, il testo prevedeva tra le altre cose 35 milioni di euro a favore dei comuni con più di 100mila abitanti per finanziare progetti di mobilità sostenibile, credito d’imposta del 50% in favore delle imprese per la bonifica dell’amianto, norme contro l’abbandono di rifiuti di piccole dimensioni come mozziconi di sigarette, gomme da masticare, scontrini, fazzoletti di carta. Ancora presto per valutare gli effetti del decreto Rinnovabili del 23 giugno 2016, che mette sul piatto 9 miliardi in 20 anni per le rinnovabili non fotovoltaiche.
Provvedimenti che, tuttavia, non si inseriscono in una Strategia energetica nazionale, che il governo Renzi non ha mai varato. L’ultima Sen risale a inizio 2013, ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Al di là degli annunci, il lavoro dell’esecutivo in questo senso è approdata appena a una risoluzione approvata in Commissione Ambiente al Senato il 16 febbraio in cui si consegna “al governo una serie di impegni“. L’ennesimo libro dei sogni.
Altrettanto campato in aria è il Green Act di cui Renzi aveva parlato per la prima volta due anni fa, in un tweet del 2 gennaio 2015 in cui elencava i capitoli principali dell’azione del suo governo. Il tema era stato oggetto di una infinita serie di annunci del ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti che iniziava il 25 febbraio 2015 (“Il Green Act partirà a marzo“) e terminava il 10 giugno 2016 (“Il Green Act potrà rappresentare il primo passo verso un nuovo modo di vedere e vivere la normativa ambientale”). Con la capogruppo Pd in Commissione Ecomafie Laura Puppato che ancora il 27 ottobre 2016 ne parlava al futuro sottolineando la necessità di “varare al più presto il Green Act”.